America :stato d'assedio di Lietta Tornabuoni

America: stato d'assedio Berlino, «Grand Canyon» di Kasdan e «Light Sleeper» di Schrader America: stato d'assedio Domani gli Orsi d'oro e d'argento BERLINO DAL NOSTRO INVIATO Le chiacchiere sui premi, sugli Orsi d'oro e d'argento che verranno distribuiti domani, sono come al solito confuse, perentorie soltanto su un punto: un premio lo prenderà il film georgiano «Rcheyli» (L'amato) di Michail Kalatosischwili. E perché? Non tanto perché, trasponendo un racconto di Mérimée ambientato in Corsica, narri di una famiglia contadina che suo malgrado viene atrocemente coinvolta (il padre uccide l'amato figlio undicenne divenuto delatore) nelle atrocità avvenute in Georgia nel 1917, nel conflitto tra rivoluzionari e controrivoluzionari: piuttosto perché è georgiano, perché le Repubbliche indipendenti ex sovietiche vanno incoraggiate e il FilmFest si è spesso attribuito compiti simili, ma soprattutto perché c'è in giuria un altro regista georgiano, lo stimatissimo Eldar Schengelaja, e se non strappasse almeno un premio cosa ci starebbe a fare? Intanto due film americani girati nelle metropoli peggiori, Los Angeles e New York, esprimono l'orrore per quel che è diventata la vita urbana e confermano la conversione ai buoni sentimenti di due registi un tempo sardonici o spietati, spaventati come tanti dalla barbarie quotidiana. Lawrence Kasdan de «Il grande freddo» e di «Turista per caso» in «Grand Canyon» vede Los Angeles come una Ugly Town, una città brutta in stato d'assedio: elicotteri della polizia perennemente strepitanti dall'alto, bande minacciose di ragazzi neri ladri di tutto, vecchi arrancanti senza tetto, bambini mendicanti venditori di fiori, le case crivellate e disfatte a raffiche di mitra per vendetta, il ladro che spara a uno nella coscia soltanto per levargli il Rolex d'oro, i telefoni pubblici fuori uso, luridi vagabondi come fantasmi della paura, neonati abbandonati nei cespugli, la tv che trasmette incendi e scontri, «questo Paese è diventato una merda». L'esasperazione della classe media, che unifica tragedie sociali e inconvenienti metropolitani mettendo tutto sullo stesso piano disperante, si somma al disagio delle singole esistenze: il film segue sei personaggi (anche Kevin Kline, Danny Glover, Steve Martin), gente civile, benedu¬ cata e spesso benestante che non ne può più. Amicizia, solidarietà e amore, suggerisce Kasdan, sono le uniche armi possibili per difendersi dall'inciviltà del nostro maledetto modo di vivere: però alla fine, ritrovandosi tutti in gita al Gran Canyon, si può anche rimanere soggiogati dal cielo vasto senza confini, dalla grandiosità naturale, dalla maestosa bellezza dell'America. Peccato che l'invadenza pesante della tesi e la mancanza di distanza dalla materia rendano il film debole, imperfetto. In «Light Sleeper» (il titolo indica uno che ha il sonno leggero, che anche addormentato sta sempre in guardia) di Paul Schrader, con Willem Dafoe e Susan Sarandon, è New York a mostrare le sue piaghe: colline di immondizia, andirivieni di spacciatori di droga, pistole comprate e vendute in un baleno a Harlem, poliziotti prepotenti e maneschi, ragazze precipitate sull'asfalto dall'attico d'un grattacielo, ragazzi uccisi con l'overdose. In una perpetua luce rosso scuro o marrone, il triste spacciatore Dafoe dai mo- di dolci perde il lavoro (la sua boss Sarandon decide di passare ai cosmetici, un ramo meno rischioso), perde la ragazza che ama, perde la libertà dopo aver ucciso per vendicare la ragazza, ma non perde la speranza: starà in galera per cinque o sette anni, quando ne uscirà potrà forse co¬ minciare un'altra vita. Immesso nel concorso a sostituire un altro film venuto a mancare, nonostante sia già uscito in Canada e in Svizzera, «Tous les matins du monde» (Tutti i mattini del mondo) di Alain Corneau conferma il carattere americo-francese del 42° FilmFest: su 31 film della sezione ufficiale, in concorso o no, 9 erano americani, 7 erano del tutto o in parte francesi. Grandissimo successo in Francia e destinato ai premi Césars, interpretato da Jean-Pierre Marielle, Anne Brochet, Guillaume Depardieu e da Gerard Depardieu presente per non più di dieci minuti, tratto da un romanzo di Pascal Guignard, ambientato nella seconda metà del Seicento, il film mette a confronto due grandi musicisti dell'epoca, virtuosi della viola da gamba: uno appassionato, integro, esigente, schivo, l'altro ambizioso, disonesto, preso dalle vanità mondane. Molto ben fatto, però midcult: e irritante per la pretensiosa, pomposa mediocrità senza vero talento dell'autore; per un'idea di cultura fatta di solennità punitiva, di sentimenti «elevati», di citazioni pittoriche, della volontà di mettere in soggezione gli spettatori con il nobile tedio e con quel «bello e sublime» programmatico a volte tanto vicino al kitsch. Lietta Tornabuoni Kevin Kline e Mary McDonnell in una scena del film «Grand Canyon»