L'anti-Eltsin

L'anti-Eltsin FOGLI DI BLOC-NOTES L'anti-Eltsin // sindaco di S. Pietroburgo IL sindaco di San Pietroburgo, l'ormai leggendario Anatolij Sobchak, uno dei protagonisti dell'anticolpo di Stato dell'agosto 1991 e del trapasso alla democrazia, decide all'ultimo momento di cambiare il luogo dell'appuntamento. Avremmo dovuto incontrarci, secondo il protocollo, presso l'Istituto Smolny, un luogo caro alla rivoluzione e al leninismo, dove egli occupa gli uffici di sindaco, in continuità, almeno fìsica, con l'antico regime. Ma, il mattino dell'11 febbraio, c'è un contrordine: il colloquio avverrà nel vecchio palazzo Mariinskij, il «palazzo di Maria», carico di reminiscenze zariste, dove ha sede il «piccolo parlamento» del municipio di San Pietroburgo, cioè l'antico Soviet cittadino, che oggi è pura e semplice assemblea elettiva, senza tracce di sovietismo. Sobchak ha qui, in questa sede fastosamente «parlamentare», un secondo ufficio, che coincide con la stanza dello zar Nicola I, l'artefice del palazzo costruito, negli anni fra il 1844 è il 1850, per la figlia Maria. Una stanza grande, con un'immensa finestra sulla Neva: una stanza denudata dove non sopravvive nessun mobile dell'antico Impero. Solo un lunghissimo tavolo, di tipo funzionale, per le riunioni di lavoro (non meno di trenta posti); e una modesta scrivania su cui domina un grande quadro di Lenin, più volte riprodotto anche in Occidente, il dittatore che appoggia la mano, quasi correndo, sui parapetti del fiume. «E' destinato alla Galleria nazionale - mi dice Sobchak, ansioso di liberarsi anche di quel ricordo -; qui metteremo una pianta di San Pietroburgo nella sua lunga e complessa evoluzione storica». Autore del quadro è l'attuale presidente dell'Unione dei pittori, Maltsev, che avevo incontrato la sera prima nella sede del Consolato italiano. Prima devoto a San Pietroburgo che al regime comunista, come Sobchak. Domando a Sobchak se la situazione in Russia è migliorata da quando l'ho incontrato l'ultima volta a palazzo Giustiniani, ai primi del luglio 1991. «Sì: è nettamente migliorata al di là delle apparenze. Sussistono grandi problemi economici, ma lo spirito nazionale è diverso da quando è stato abbattuto il partito comunista. Da quando cioè è stato sciolto l'equivoco che Gorbaciov aveva prolungato per troppo tempo». Sobchak non ha rimpianti per Gorbaciov. Gli rimprovera troppi compromessi, le troppe rinunce, magari - è la sua espressione prediletta - «le troppe acrobazie». «Solo con la sua caduta la "nomenklatura" è stata disfatta, le strutture repressive messe in crisi». «L'ideologia comunista - aggiunge Sobchak - è screditata. I comunisti non possono dire nulla direttamente, e per essi la posi zione più comoda è quella natio nal-patriottica, per la quale i democratici diventano i rappresen tanti del sionismo e dell'interna zionalismo che strozzano la Russia, esattamente come ai tempi di Hitler». Siamo all'indomani della manifestazione di massa a Mosca, guanto di sfida al nuovo regime Sobchak la giudica un fallimento. Il corteo era organizzato dai reazionari di destra; gli stalinisti si erano mascherati sotto quelle screditate bandiere. Ma Sobchak non crede nella ripresa dell'antisemitismo russo E registra con soddisfazione il flusso dell'emigrazione ebraica verso Israele: di cui non contesta il merito a Gorbaciov. Valuta in oltre un milione e mezzo gli israeliti rimasti nei territori della ex Urss. E prevede che una parte non li abbandonerà. Il suo «j'accuse» a Eltsin (non lo ha mai amato, né prima e né dopo l'innalzamento ai fastigi del potere russo) è di altro tipo. Egli rimprovera al presidente della Repubblica russa la solitudine, il suo volontario e ostentato prescindere da ogni forza politica. E si sofferma sulla polverizzazione dei partiti nell'assemblea nazionale di Mosca, dove manca, anche per volontà di Eltsin, una dialettica di tipo, anche solo parzialmente, occidentale. Sobchak crede nel pluripartitismo. Si vanta di avere creato, con Shevardnadze, il movimento per le riforme democratiche, altrimenti detto «Russia democratica». «Il mio movimento - aggiunge con una punta di enfasi è capillarmente diffuso in tutta la Russia. Raccoglie consensi soprattutto fra i giovani, che sono più disorientati e più ansiosi di orizzonti nuovi. Eltsin crede invece al potere personale, a una specie di investitura carismatica, che egli ritrova nel contatto diretto con le folle. E piuttosto che appoggiarsi alle forze politiche si regge sull'apparato». «Ma quale apparato, se il partito è stato sciolto?». «E' l'immensa burocrazia di partito e ora di Stato, che non è stata mai sciolta, che è opportu- nista, che non crede in niente. Governare solo con la burocrazia - Sobchak pronuncia queste parole come una sentenza - potrebbe essere un pericolo». La mappa dei partiti del Parlamento russo è sconfortante. Sono oltre 60 quelli che hanno partecipato alle elezioni (come in Polonia, con risultati di eguale frantumazione); oltre 30 quelli rappresentati. Ma in modo friabile, instabile, provvisorio. «Ogni giorno cambiano nome - mi dice Sobchak -. Certi deputati si spostano continuamente da una posizione all'altra. Diventa difficile seguirli o anche solo segnarli». «Ma le forze reazionarie di quali movimenti possono disporre?». La risposta di Sobchak vorrebbe essere rassicurante. «Sul piano organizzativo-parlamentare non c'è quasi nulla che rifletta la posizione della destra estrema che ha tentato la manifestazione di Mosca in unione con i vecchi stalinisti. Questo è un pericolo che c'è nel Paese, ma nel Parlamento è molto limitato». Alla fine di questo lungo travaglio Sobchak vede uno Stato di diritto, svincolato da tutte le radici dell'autocrazia russa, sia za- rista, sia sovietica. Ecco perché parla - con Shevardnadze - di una posizione «liberal-democratica». «L'idea del liberalismo ha avuto sempre vita diffìcile in Russia, nel Paese del radicalismo politico. Ma ci vuole una prospettiva liberal-democratica che si identifichi col ceto medio rinascente». Sembra di sentire, sulle rive della Neva, Giovanni Amendola. Durissimo il giudizio sulla sinistra. «Ci vorrà molto tempo - mi dice Sobchak nell'ex-stanza dello Zar - perché le ideologie socialiste in senso occidentale possano riguadagnare terreno in Russia, spazzate via come sono state dall'esperienza bolscevica». Il termine «socialismo» è scomparso anche dalla variopinta geografia dell'assemblea di Mosca: è il prezzo per l'uso e l'abuso dell'espressione «socialismo reale». Esiste solo un partito socialdemocratico; esistono due partiti comunisti, di cui uno stalinista, guidato da Nina Andreeva. Ma il crollo dell'autocrazia comunista ha compromesso anche l'uso di termini gloriosi legati alla storia-dei primi tentativi democratici e progressisti nella Russia pre-leninista. Sotto questo profilo Lenin ha raggiunto il suo obiettivo: uccidere gli avversari. Su un punto Sobchak si differenzia nettamente da Eltsin (e non è il solo). Egli rimpiange quel vincolo confederale che era implicito nel piano di Gorbaciov. Giudica troppo bizzarra, troppo rozza e semplicistica la formula della Comunità degli Stati Indipendenti, quella inventata da Eltsin. Non avventura previsioni sul futuro di alcune Repubbliche rimaste a metà del guado, dalla Georgia alla Moldavia all'Azerbaigian. Il sindaco si riferisce a una recente riunione dei presidenti di otto Stati della nuova unione a Davos. «E' riaffiorata una mentalità totalitaria. Tutti hanno indicato come elementi di indipendenza l'esercito, la polizia, i servizi segreti, la valuta, le frontiere. Ma cosa c'è di diverso dallo Stato di Lenin?». Le conseguenze di Sobchak sono taglienti. Se i nuovi Stati vogliono eserciti separati, è chiaro che si profila una fase di guerre civili destinate a prolungarsi nel tempo, non esclusa l'ombra del terrorismo nucleare. L'antidoto alla balcanizzazione della Russia è l'Europa, per il sindaco di San Pietroburgo. L'Europa che si identifica con la città, con la sua storia, con la sua cultura. Il palazzo Mariinskij è stato ricostruito in modo perfetto. La sala del Consiglio comunale potrebbe accogliere un grande Parlamento. Si capisce che la città non ha rinunciato al retaggio di una storia lunga e condizionante. I restauri sono stati puntigliosi e pedanti. Sembra di tornare alla «belle epoque». Gli ori luccicano; le immense pitture storiche dominano le scale, larghe quanto nel palazzo del Parlamento di Budapest (di pochi anni successivo). Qui si respira, settantanni dopo, il clima della capitale, la «capitale premeditata» come l'aveva chiamata Dostoevskij. E Dostoevskij aveva definito anche le regole della «doppia cittadinanza». «Ogni russo ha due patrie: la nostra Russia e l'Europa». Giovanni Spadolini Anatolij Sobchak