Gli operai della GM come marines contro i giapponesi

Gli operai della GM come marines contro i giapponesi Nello stabilimento di Linden (3300 licenziamenti in poche settimane) esplode la rabbia delle tute blu General Motors Gli operai della GM come marines contro i giapponesi Bruciata in strada la bandiera del Sol Levante: «Troppe auto gialle ci affamano» WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE La scena era impressionante. E anche se l'espressione «nazionalismo automobilistico» può far sorridere, la faccenda è maledettamente seria. Sullo spiazzo antistante lo stabilimento della General Motors di Linden, New Jersey, si sono raccolte circa mille persone. Sono quasi tutti operai della fabbrica automobilistica. Agitano cartelli. Urlano slogan. Sui cartelli ci sono scritte come: «Pearl Harbour II», «Hai fame? Mangiati la tua macchina straniera», «Le importazioni ti tolgono il lavoro. Pensaci prima di comprare». In mezzo ai manifestanti, si fa avanti un operaio in tuta blu. L'assembramento si apre, facendogli corona attorno. Poi, come fosse un sacrifìcio religioso, l'operaio estrae dal pettorale della tuta una bandiera bianca con un tondo rosso al centro. E' la bandiera giapponese. Gettata a terra, viene inzuppata di benzina e accesa. Mentre brucia, la gente agita bandiere a stelle e strisce. Gli altoparlanti intonano a tutto volume «Born in the Usa», nato negli Stati Uniti. Di là dallo spiazzo c'è un'autostrada. I camion che passano salutano la manifestazione contro i «Japs» suonando le trombe a tutta forza. Si direbbe che è riscoppiata la guerra. Infatti è così, ma, per quanto una delle più dure della storia dell'umanità, si tratta di una guerra commerciale. Certo che, per tornare a Linden, dei 3700 lavoratori dello stabilimento General Motors solo 400 hanno conservato il posto di lavoro. Tutti gli altri sono stati licenziati nelle ultime settimane. Il '91 è stato l'anno peggiore in tutta la storia dell'industria automobilistica americana. E la colpa di chi è? Dei giapponesi, naturalmente. Mentre hanno continua¬ to a calare complessivamente le vendite di auto negli Stati Uniti, la quota di mercato che i giapponesi si sono aggiudicati ha continuato a salire fino al 30% attuale. «Stanno crocifiggendo la nostra industria automobilistica», urlava, nella manifestazione di Linden Bob Freeman, ingegnere della fabbrica e membro dei sindacato dei lavoratori dell'auto. Anche per questo era stato deciso di non consentire l'ingresso nel parcheggio attiguo al piazzale ad alcun partecipante alla manifestazione che si fosse presentato con un'auto straniera. Nazionalismo automobilistico, appunto. Al cementarsi di questo sentimento, oltre alle condizioni materiali che lo hanno generato, hanno contribuito molto le sprezzanti dichiarazioni di alcuni alti personaggi del mondo politico giapponese a proposito degli operai americani e delle loro qualità lavorative. «Devono imparare a vivere del sudore della loro fronte», aveva detto il primo ministro Miichi Miyazawa, accusandoli di pigrizia. «Ecco, aprire la bocca è stato il regalo migliore che quel tipo potesse farci», commentava Kevin Donaghue, del locale sindacato dell'automobile. E spiegava: «E' noto che gli americani diventano delle belve quando qualcuno cerca di prenderli in giro». Intanto, mentre il «Japan bashing», il «dagli al giapponese» è un movimento nazionale in continua estensione, i legislatori fanno a gara a confezionare progetti di legge protezionistici, che blocchino o almeno frenino l'alluvione di macchine con gli occhi a mandorla. L'ultima è del senatore Max Baucus, democratico del Montana e presidente della sottocommissione per il commercio internazionale. Rappresenta la versione «morbida» di un'altra proposta presentata dal capogruppo demo¬ cratico alla Camera, Richard Gephardt. Baucus, in polemica con George Bush, sostiene che «è finito il tempo dei trucchetti e dei cerotti». E propone che, per sette anni, la quota di auto giapponesi esportate negli Stati Uniti nel '91 sia considerata un tetto massimo. E la sua proposta prevede anche, come sanzione nel caso i giapponesi non rispettassero il tetto, l'imposizione di tariffe talmente pesanti da scoraggiare l'acquisto di auto con gli occhi a mandorla. E' un'idea più moderata di quella di Gephardt, che intende imporre per legge al governo giapponese la parificazione della bilancia commerciale. Ciononostante, i produttori d'auto, pur ringraziando Baucus, dicono di preferire ancora «i negoziati alla guerra». Nelle guerre, se non si vince, si finisce o morti o prigionieri. Paolo Passerini

Luoghi citati: Montana, New Jersey, Stati Uniti, Washington