Usa, nostalgia d'Europa nelle giungle d'asfalto

Usa, nostalgia d'Europa nelle giungle d'asfalto Urbanisti e critici a confronto sulle metropoli americane Usa, nostalgia d'Europa nelle giungle d'asfalto TORINO ANHATTAN e il ponte di Brooklyn, le strade di San Francisco, i grattacieli di . Chicago, le corse sulle «freeway» dei poliziotti di Los Angeles e Miami: la città americana va in onda ogni giorno. Ma cosa c'è dietro le architetture mitologiche disegnate da cinema e pubblicità? Ci sono veramente città-spettacolo, epiche imprese di architetti che da una settimana all'altra, veloci ed efficienti, cambiano il volto di interi quartieri, fanno nascere uffici, spostano masse di popolazione? E che rapporto ha, tutto questo, con la cultura europea? Della città americana hanno parlato ieri, a Torino, architetti, urbanisti e letterati, nel convegno «Stati Uniti d'America. I materiali della città». L'incontro è stato organizzato dalla Facoltà di Architettura, dal Lingotto e da Casabella, rivista diretta da Vittorio Gregotti che a questo tema dedica l'ultimo numero. «L'influenza della scuola americana sull'Europa - dice Gregotti - fortissima nel dopoguerra, è finita». Le metropoli Usa, a quanto pare, guardano alla vecchia Europa. Si rivalutano i mezzi di trasporto pubblici, si coltiva una «nostalgia di centralità», il desiderio di dare alle me¬ tropoli un centro, come nelle città europee. I grandi «shopping center», i musei organizzati come giganteschi parchi di divertimento intellettuale, lasciano le periferie e si spostano nel cuore delle città. E al loro interno si va a piedi, l'automobile resta fuori. «Ogni volta che lascio una città americana - spiega un altro architetto, Roberto Gabetti - nutro sensazioni diverse, perché ogni città è diversa. Ma è anche l'impressione che gli americani hanno di sé. Nella stessa città fioriscono il gusto per l'enorme (il Lincoln Center, angosciante, costruito per la felicità dei newyorkesi), e l'amore quasi religioso per il dettaglio: le mattonelle del pavimento negli uffici della Twa, all'aeroporto di New York, lavorate con una minuzia quasi maniacale». Brutale e raffinata, la cultura americana vive di contraddizioni. «Nessuno ha usato tanto i materiali della città come gli artisti pop», dice l'architetto Carlo Olmo. Ma nell'arte americana, aggiunge Marco Rosei, città e campagna sono inconciliabili. Lo testimoniano molte opere esposte al Lingotto: le solitudini urbane di Hopper, i segnali stradali, le insegne luminose della Pop Art, che non rimandano mai a una città reale. Inquietudine e disagio verso la città - ricorda l'americanista Claudio Gorlier si incontrano fin dagli inizi nella letteratura e nel cinema americano: le città maledette di Hawthorne, Poe e Thoreau, le «terre desolate» di Eliot, i valori del Sud americano di Faulkner, fino alla massaia alienata di John Cheever, che in un raptus avvelena i prodotti di un supermarket, feticcio della civiltà urbana. «Aveva ragione Oscar Wilde: "la realtà è inventata dalla letteratura"». E lo studioso ha ricordato Sterling Hayden, che fugge dalla «giungla d'asfalto» e va a morire in campagna, davanti ai suoi cavalli. Per non parlare delle megalopoli sconfitte in film recenti, come Biade Runner e Fuga da New York. Un quadro troppo fosco? Forse. «Non abbiamo voluto attaccare la cultura americana - ha detto Gregotti - ma offrire un quadro d'insieme, dal punto di vista europeo, di un Paese "diverso". La frase finale del saggio di Kenneth Frampton su Casabella è un po' apocalittica: "Benvenuti nel primo Paese sviluppato sottosviluppato del mondo, benvenuti nel deserto telematico e disastrato del futuro, benvenuti in America"». Cario Grande Gregotti: l'influenza del modello statunitense è finita, le loro città cercano un centro Gregdel mè fincerc Nella foto grande grattacieli di New York. Da sinistra Vittorio Gregotti e Roberto Gabetti