CENTRO-SINISTRA C'era una svolta

CENTRO SINISTRA C'era una svolta Trent'anni dopo, Giolitti racconta le attese, gli equivoci, le viltà di una stagione politica CENTRO SINISTRA C'era una svolta i L centro-sinistra nacque, jjopo lunghi dibattiti e con forti avversioni dei settori più conservatori della de, delVaticano e dell'industria, con il quarto governo Fanfani, costituito il 21 febbraio 1962. Ne facevano parte de, psdi e pri, con l'astensione contrattata del psi, nel quale era prevalsa una linea «autonoma» dal pei. Fulcro del programma erano alcune riforme, come la nazionalizzazione dell'energia elettrica, le Regioni, la cedolare sui titoli azionari, la riforma della scuola, della pubblica amministrazione e quella urbanistica. L'attivismo di Fanfani non placò le apprensioni e, il 6 maggio successivo, l'elezione di Antonio Segni a Presidente della Repubblica fu interpretata come un siluro alla formula di governo ap¬ pena nata. Fanfani riuscì a varare la nazionalizzazione dell'energia elettrica e la cedolare d'acconto, ma quando il 7 ottobre Nenni propone l'ingresso dei socialisti nel governo il destino del ministero è già segnato. Le elezioni del 28 aprile 1963 segnano una sconfitta per la de, che alla vigilia del voto si era dissociata dalla proposta di legge urbanistica del suo ministro Fiorentino Sullo. In giugno, dopo la rinuncia di Moro, Giovanni Leone forma un monocolore democristiano. Per veder nascere il primo governo di centro-sinistra organico, cioè con ministri socialisti, bisognerà attendere il 5 dicembre del 1963, quando, con Moro presidente del Consiglio, Pietro Nenni entrerà da vicepresidente nella «stanza dei bottoni». ROMA RATELLI d'Italia/l'Italia a sinistra/il vero progresso/a voi somministra./La moglie ubriaca/paciosa, serena/e la botte ben piena/Fanfani darà». Questi versi, parodia dell'Inno di Mameli, furono ricevuti per posta da Amintore Fanfani - così racconta Vittorio Gorresio ne L'Italia a sinistra - mentre varava il suo quarto ministero, il primo governo di centro-sinistra, che nacque grazie all'astensione «contrattata» dei socialisti. Era il 21 febbraio 1962, trent'anni fa. Molto si è scritto su quella «svolta» politica. Ma l'indagine non è stata aggiornata dopo la caduta del comunismo, che in quella vicenda fu il convitato di pietra. Perciò abbiamo interpellato Antonio Giolitti, oggi senatore della sinistra indipendente, ex comunista, uscito dal pei nel 1957 e protagonista come autonomista del psi dell'intera stagione del centro-sinistra. «Non fu una svolta improvvisa», racconta Giolitti, allampanato come sempre e soltanto un po' incurvato e incanutito, rovistando tra carte e volumi. «C'era tutto un fermento già dalla metà degli Anni 50, che divenne linea nel 1957, quando al congresso di Venezia nacque l'Autonomia socialista. Togliatti temeva l'autonomismo, paventava che i socialisti fuggissero per la tangente e insisteva per l'unità». Lei, senatore Giolitti, Togliatti lo conosceva bene? Direi di sì. Sono stato segretario del gruppo comunista della Camera e perciò ero suo «compagno di banco» a Montecitorio. Quando timidamente avanzavo qualche dubbio lui rispondeva: «E' bene così. Bisogna respingere il dubbio». Tutto ciò che riguardava l'Unione Sovietica era un dogma, salvo Krusciov, che proprio non sopportava. Bastava vedere come scriveva il suo nome, con una grafia ostica, piena di «h». Del resto, si sentiva superiore a tutti i successori di Stalin, li guardava dall'alto in basso. Fu felice quando Concetto Marchesi, in un discorso, esclamò: «Stalin come Tiberio? Ma Tiberio aveva un Tacito. Stalin ha Nikita!». Scomparso il pei, purtroppo rispetto a Togliatti c'è ancora il culto della continuità, una sorta di rimpianto del saper fare politica che coinvolge anche i comunisti più avanzati Napolitano, Macaluso, Bufalini. Unico al mondo, se si escludono Cuba e Cina, il pei non è stato sradicato dal 1989 forse proprio per il fascino di Togliatti, per la sua «doppiezza», che era un capolavoro politico. Questo era dunque il pei togliattiano quando lei ne uscì. Quali «fermenti» si agitavano per l'apertura a sinistra? Ricordo un dibattito nella primavera '59 tra La Malfa, Lombardi, Foà, Ernesto Rossi e io. Il titolo era: «Per una politica di sviluppo pianificato». Tutti insistevano sulla pianificazione, anche i non marxisti, a cominciare da Ugo La Malfa. L'unico cui la parola non piaceva per niente era Ernesto Rossi. Un altro dibattito importante risale all'ottobre '61. All'Eliseo c'erano tutti: repubblicani, socialisti, comunisti. Relatore era un giovanotto... Chi era? Eugenio Scalfari. Tutti dicevano: «Ma com'è intelligente questo ragazzo». Uscivamo dal governo Tambroni con i fascisti, che avevamo vissuto come un incidente di percorso dell'apertura a sinistra. Kennedy era stato eletto Presidente degli Stati Uniti. In quei giorni preparammo la relazione che poi fu approvata dal Comitato centrale del psi nel gennaio 1962. Tracciava gli obiettivi di quella che chiamammo la «svolta a sinistra». In quella relazione c'è tutto il programma del successivo governo Fan- Le poper l«Nazper lcome fani: la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la cedolare, le Regioni, la riforma urbanistica. Ci racconti il 21 febbraio '62. Fanfani formò il governo con La Malfa ministro del Bilancio e l'astensione del psi. A nome di Nenni i rapporti con Fanfani e Moro li teneva Riccardo Lombardi. Quanto Nenni era ingenuo, tanto Lombardi era guardingo. Mi ripeteva continuamente: «Attenzione, sempre democristiani sono». Perciò fissavamo una posta più alta per tentare di ottenere il minimo. I nostri consiglieri erano Sylos Labini, Fuà, il cattolico Lombardini, Steve, Saraceno, Caffè, Spaventa giovanissimo. Senatore, voi concedeste l'astensione al governo Fanfani invocando «la rottura degli equilibri capitalistici», la «transizione verso il socialismo» e le «riforme di struttura» per la «conquista del potere da parte delle classi escluse». Un bell'armamentario marxista? Sì, ma mi conforta che anche Ugo La Malfa parlava di pianificazione e accettava questo linguaggio. Ernesto Rossi era l'unico a chiederci: «Ma mi volete spiegare che cosa sono queste riforme di struttura? Le riforme sono riforme e basta». E voi? Eravamo vittime di una sorta di doppiezza, succubi del terrorismo ideologico comunista. Eravamo atterriti dall'idea di essere accusati di riformismo o, peggio, di socialdemocrazia. Non credo alla tesi di una totale egemonia comunista, ma l'egemonia sul piano culturale c'era eccome. Anche socialdemocrazia era una parolaccia? Per carità. La disgrazia era che questa parola fosse associata al partito di Saragat. Oggi lei parlerebbe più di «guerra al capitalismo» e di «transizione al socialismo su scala mondiale»? Non ripeterei e non ascolterei mai impunemente frasi del genere. Era un vizio ideologico grave. Pensavamo di trasformare il capitalismo per arrivare a una forma di socialismo che non era quello sovietico. Ma non avevamo un modello, navigavamo nell'ambiguità. Era un'utopia equivoca, ma neanche La Malfa se ne rendeva conto. Lei non è più marxista? No, se lo sono stato è stato per ingenuità. Durante il fascismo ho condiviso l'idea della lotta di classe e del capitalismo fondato sullo sfruttamento del lavoro. Ma so di aver sbagliato. Pensa che il capitalismo non abbia alternative? Il termine capitalismo rientra in una concezione marxista. Prefe¬ risco parlare di economia di mercato. Penso che l'economia di mercato non abbia alternative, ma dev'essere associata alla democrazia, che la umanizza. La democrazia è il correttivo del capitalismo. Nazionalizzerebbe di nuovo l'industria elettrica, come fece il primo centro-sinistra? L'industria elettrica com'era allora la nazionalizzerei di nuovo. Oltre al valore simbolico, la nazionalizzazione aveva anche un valore intrinseco: le industrie elettriche erano pessime in tutti i sensi. Carli colloca allora l'inizio del capitalismo assistenziale. Sono amico di Carli, ma devo dire che sbaglia. Il capitalismo assistenziale deriva dalla dissemi¬ nazione clientelare di aziende a partecipazione statale e le radici del disastro attuale della finanza pubblica si possono far risalire proprio all'asse Carli-Colombo negli anni del centro-sinistra. Loro aprirono i rubinetti della spesa. Quel tandem ha fatto male al Paese. Quanto all'Enel, è vero che ha avuto degenerazioni clientelai! Ma questo non deriva dalla nazionalizzazione in sé. E' stato l'effetto dell'uso che ne hanno fatto i partiti. Fu Carli a voler dare gli indennizzi alle imprese elettriche? Sì, ma su questo non ricordo un grande scontro. Semmai lo scontro fu sulla nomina del presidente dell'Enel. Riccardo Lombardi e io proponevamo Felice Ippolito o, in alternativa, l'ex governatore della Banca d'Italia Donato Me- nichella. Moro pretese, invece, di mettere Di Cagno, un avvocato barese che era stato nemico della nazionalizzazione. Una soluzione puramente clientelare, il governatore della Banca d'Italia era dunque ostile al centro-sinistra? Nettamente. Qualunque proposito riformista lui lo considerava spendaccione. Ma alle parole di rigore non corrispondevano i fatti. Nella fase del centro-sinistra organico, quando ero ministro del Bilancio, Carli portava già elaborati in ogni dettaglio disegni di legge che prevedevano la copertura di spesa soltanto per l'anno in corso. Poi, in fondo, c'era un comma che prevedeva il ricorso al mercato finanziario per la copertura negli anni successivi. Ma l'ostilità maggiore era quella della Confindustria, che considerava La Malfa il suo nemico numero uno, soprattutto dopo la pubblicazione della famosa «Nota aggiuntiva». Come mai Valletta era favorevole al centro-sinistra? Forse voleva essere sempre filogovernativo. Comunque s'interessava molto alla programmazione. Nel '64, quando ero ministro, un giorno il capo di gabinetto Cafagna mi dice: «Guarda che c'è Valletta in giro per il ministero». E io: «Perché non ha chiesto di essere ricevuto?». «Sai - mi risponde Cafagna - ho saputo che venire qui è una sua abitudine, lo faceva anche quando c'era La Malfa, gli piace sentir l'odore della programmazione». Non corriamo, senatore. Il governo Fanfani cadde, ci fu un monocolore de e poi nell'estate '63 lei fu contro la seconda edizione che doveva essere guidata da Moro. Sì, fu la notte di San Gregorio, di cui ancora mi vergogno. Io avevo condotto tutta la trattativa sul programma per formare il primo governo organico di centro-sinistra. Quel giorno avevamo dato gli ultimi ritocchi all'accordo in una colazione con Ferrari Aggradi e Petrilli. Ma nella notte fui costretto a dire che il programma che io stesso avevo concordato era inadeguato. Perché fu costretto? Perché Lombardi insisteva sulle «riforme di struttura». Fu una notte terribile, nella sezione socialista in uno scantinato di via Monte Zebio. Piuttosto di rom¬ pere con Lombardi, di cui ammetto di essere stato succubo, preferii rompere con la de. Ma ruppi anche con Nenni e Pertini. Nenni disse - e aveva ragione che non avevamo il coraggio dei nostri atti. Pertini, infuriato, urlò che era una coltellata alla schiena, che i falliti di altri partiti erano venuti a covare le loro uova nel psi. Anni dopo facemmo pace e lui mi scrisse una lettera in cui diceva che ci sono due modi d'invecchiare: c'è chi «inacidisce» e diventa «fazioso e settario» come «il vecchio» - naturalmente si riferiva a Nenni - e chi invecchia «sereno e pacifico», naturalmente come lui. Lombardi era d'accordo con Fanfani nell'osteggiare un nuovo centro-sinistra fatto da Moro? Lo escludo. Fanfani si sentiva scavalcato indebitamente da Moro, considerava che il nuovo centro-sinistra sarebbe stato edulcorato rispetto al suo. Ma sbagliava: lui non avrebbe mai potuto far digerire alla de il centro-sinistra organico. Quel governo comunque si fece il 5 dicembre 1963 e lei ne fu ministro del Bilancio e della Programmazione economica. Non fu così semplice. Quel giorno mi telefona Nenni: «Guarda, tu sei ministro del Commercio estero». E io: «No, non accetto. Il psi non può subire rumiliazione di non avere uno dei tre ministeri finanziari». Inviperito, Nenni strepita e mi accusa di compro- mettere tutto. Qualche ora dopo mi richiama: «Te l'hanno dato». Che cosa era successo? L'ingenuità di Nenni era tale che non capiva come fosse essenziale ottenere uno dei tre ministeri economici. Saragat, poi, aveva un'ostilità fortissima nei miei confronti, era quello che temeva di più le reazioni dell'establishment economico. Disse che io non sapevo distinguere tra tasse e imposte. Gli risposi che lui non sapeva distinguere tra villania e buona educazione. Come parti infine il centrosinistra organico? Lo ricordo come un incubo. Lombardi mi sollecitava le famose «riforme di struttura» mentre io ero alle prese col problema del grano e dello zucchero, che mancavano. Di fronte a un'ennesima insistenza di Lombardi un giorno gli dissi: «Guarda che la gente non può mettere la programmazione nel caffellatte». Era Lombardi a creare i maggiori problemi? In quel periodo era direttore delYAvanti! e scriveva articoli che mi mettevano in forte imbarazzo. Carli veniva la mattina con un sorriso e mi diceva: «Ha letto rdi a» quel che scrive il suo amico Lombardi?». Lui e Colombo non facevano che ripetermi: le riforme costano, andiamoci piano, non spaventiamo gli imprenditori, la programmazione semina panico, i capitali fuggono. E Moro? Convocava riunioni interminabili. Lui, Nenni, che era vicepresidente, Colombo, Tremelloni, Carli e io. Con una matita Nenni scriveva tutto, ma capiva quasi niente. Una volta mi chiese sottovoce: «Che vuol dire surplus!». Un'altra volta rimase di sasso perché Carli, facendo un paragone, disse: «E' come se ci mangiassimo la locomotiva». E Nenni: «Ma che vuol dire? Che c'entrano i treni?». Tremelloni, ministro delle Finanze, era poi il frenatore più feroce. Una volta proposi di fare un'indagine per campione tra i contribuenti per scovare gli evasori. Lui saltò su: «Mai farò una politica fiscale degna del Congo!». Quella volta c'era anche Ferrari Aggradi, che mi sussurrò: «E questo dice di essere un socialista?». Insomma, era un inferno. Moro trascinava le riunioni fino alle due del pomeriggio e poi faceva: «Ci rivediamo alle cinque». Portava tutto a consunzione. E ogni riunione cominciava con la frase di rito: «Colombo, cosa dici?». E Colombo che cosa diceva? Era molto forte. Una volta dissi a Moro di dargli un po' meno spazio e lui mi rispose: «Colombo conta molto, è amico di Segni». Lei pensa veramente che Segni, allora Presidente della Repubblica, pensasse a soluzioni autoritarie? Sceiba racconta nei suoi diari che nel giugno 1964 fu chiamato al Quirinale e Segni gli disse esplicitamente che occorreva liquidare il centro-sinistra. Gli chiese di fare un governo presidenziale. Sceiba manifestò la sua contrarietà e Segni rispose che aveva già l'adesione di Pella. Certo Colombo non poteva ignorare il proposito di Segni di liquidare il centro-sinistra. Lei fu mai convocato da Segni in quel periodo? Sì, m'invitò a colazione un paio di volte e non fece altro che ripetermi di non fidarmi dei sovietici. Nenni ha annotato di quel periodo: «Carli purtroppo è il solo ad avere una visione d'insieme». Nel tandem con Colombo chi contava di più? Era Carli a contare di più sui temi economici, ma Colombo pesava nella de. I disegni di legge già pronti che il governatore portava alle riunioni spesso Colombo non li aveva ancora visti. Con Carli ho avuto e ho un ottimo rapporto umano. Mi diceva: «La rispetto perché capisco la sua carica morale». Ma in sede storica va detto che i problemi dell'evasione fiscale e del disavanzo pubblico nascono proprio in quegli anni. Quand'è che il centro-sinistra defunse? Cominciò ad afflosciarsi e poi si spappolò con l'unificazione tra psi e psdi nel 1966. Si annuncia un'altra stagione-chiave della politica? Direi con Arnold Toynbee che si annuncia un periodo di «torbidi». C'è un affievolimento del pensiero politico. Basta vedere quel che fa Cossiga con la sua protesta qualunquistica. E' la reincarnazione di Guglielmo Giannini. In queste condizioni, meglio lasciare il Parlamento e restare a casa. Alberto Staterà Le polemiche con Carli per la vicenda Enel «Nazionalizzare per lui troppo costoso» Qui a fianco, Pietro Nenni e Aldo Moro alla prima riunione del nuovo centro-sinistra nel dicembre '63. A sinistra Antonio Giolitti, e Fanfani nel febbraio '62 Sopra, Amintore Fanfani e Antonio Segni, Presidente della Repubblica negli anni del primo centro-sinistra. In basso, Guido Carli, Ferrari Aggradi e Antonio Giolitti «Succubo di Lombardi rinnegai l'accordo coi democristiani: mi vergogno ancora»