Londra l'aristocrazia in fumo di Sergio Romano

Londra, l'aristocrazia in fumo Il culmine del potere con la rivoluzione industriale, poi il declino Londra, l'aristocrazia in fumo Le «parrucche» spodestate da nuovi ricchi s\ IUANDO regnava a Lon11 dra negli Anni Ottanta, 11 la signora Thatcher aveII va due grandi amici: Y I Reagan a Washington e l Gorbaciov a Mosca. In Europa erano pochi i suoi «pari» che non avessero avuto con lei qualche bisticcio politico e non tirassero un sospiro di sollievo alla fine dei loro incontri. John Major è urbano, sorridente, compito. Ma al vertice di Maastricht ha depennato la parola «federazione» dai documenti finali, ha rifiutato di assumere impegni sulla moneta comune e ha bloccato con il suo veto qualsiasi decisione comunitaria in tema di Europa sociale. Con Bevin o Eden, con MacMillan o Wilson, con Thatcher o Major, la Gran Bretagna imperiale e l'Inghilterra laborista rifiutano di camminare al passo degli altri e continuano a recitare la parte del guastafeste. Con una di quelle splendide banalità di cui era maestro, il generale De Gaulle ne spiegava le ragioni ricordando che l'Inghilterra «è un'isola». Gli storici invece amano dire saccentemente che la sua anomalia è il risultato di una storia «diversa». In un grande libro apparso ora presso Mondadori, Declino e caduta dell'aristocrazia britannica, uno storico inglese che insegna alla Columbia University di New York, David Cannadine, illumina con eleganza e ricchezza di studi uno dei principali aspetti di questa diversità. Protagonista del libro è la nobiltà delle isole britanniche; la storia è quella della sua lunga agonia dal 1880 ai nostri giorni. E' una storia di duchi, marchesi, conti, visconti, baroni e baronetti che muoiono come i vecchi capitani delle navi di battaglia: in piedi, sul ponte di comando, la mano alla visiera del berretto, lanciando sfide al nemico e ordini alla ciurma. In che cosa erano diversi dai duchi francesi, dagli junker prussiani, dai principi austriaci o dai conti magiari? Erano diversi - ci racconta Cannadine - perché seppero conservare, più a lungo e meglio dei loro colleghi continentali, la proprietà della terra. Fra il 1870 e il 1880, settemila famiglie possedevano quattro quinti del territorio britannico. Anziché nuocere alla loro fortuna, la rivoluzione industriale aveva reso i nobili inglesi, gallesi, scozzesi e irlandesi (soprattutto quelli che avevano fondi ricchi di giacimenti carboniferi) ancora più ricchi e potenti di quanto non fossero mai stati nella storia del Paese. Al possesso della terra erano indissolubilmente legati la Costituzione dello Stato e la struttura del sistema politico. I 580 pari che sedevano alla Camera dei Lord nel 1880 erano il vertice (Edmond Burke disse un giorno: «il capitello corinzio») della piramide aristocratica della società britannica, e la Camera dei Comuni fu in realtà, sino al 1890, un «club di proprietari terrieri». Al monopolio del potere legislativo corrispondeva, di fatto, il monopolio del potere esecutivo, giudiziario, militare, ecclesiastico e burocratico. Cannadine ricorda a titolo di esempio il caso dei Lyttleton. George, quarto lord della famiglia, ebbe otto maschi. Il primo ereditò il titolo e le terre, tre presero gli ordini, due si dedicarono agli studi giuridici e uno di essi saltò dalla legge alla politica, un altro divenne capo di stato maggiore, l'ultimo fu segretario di Gladstone nell'ultimo periodo della sua carriera politica. Erano anni, ricorda Cannadine, in cui i ministeri erano «botteghe d'antiquàrio», le giornate lavorative brevi, le vacanze lunghe e i compiti professionali delle élite dirigenti piacevolmente generici. Ai rampolli dell'aristocrazia che indossavano la parrucca del giudice, la redingote del vescovo o i gambali degli ufficiali della guardia, venivano richieste le virtù del dilettante: eleganza, savoirvivre, senso dell'onore, coraggio. Scrisse il Times, nel 1884, che le carriere legali erano per l'aristocrazia «una forma di svago, (...) un cambiamento piacevole dopo la caccia e la pesca», e che i clienti occupavano per i nobili avvocati «all'incirca la stessa posizione delle volpi e dei fagiani». Su questo mondo perfetto, tenacemente convinto della propria superiorità sociale, si abbatté verso la fine del secolo il vento dei mutamenti politici e sociali. Impoveriti da massicce importazioni di grano americano e australiano, contestati dagli affittuari e insidiati dalla borghesia industriale e mercantile, i nobili si avviarono sulla strada del loro lungo declino, divennero «stranieri nella propria terra». La legge del 1884 raddoppiò il numero degli elettori (da tre a sei milioni) e quella del 1885 rinnovò la geografia elettorale del Paese abolendo i piccoli collegi rurali a vantaggio dei collegi urbani. Cresceva nel frattempo l'importanza della Camera dei Comuni rispetto a quella dei Lord. , , Condannati a morire, i nobili dovettero subire, prima di lasciare la scena dei loro trionfi, l'oltraggio della borghesia rampante e cosmopolita. Grazie all'opportunismo della classe politica e agli insaziabili appetiti mondani di Edoardo VII, i salotti londinesi si popolarono di avventurieri, parvenus, ebrei, ereditiere americane, uomini e donne di oscura ascendenza. A questi «barbari» non bastava la ricchezza: occorrevano titoli e onori. «Fra il 1875 e il 1884 - scrive Cannadine - vennero assegnati solo 448 cavalierati di vario genere. Ma fra il 1915 e il 1925 furono attribuite ben 2791 onorificenze, vale a dire oltre il quintuplo. E nell'arco di tempo fra il 1885 e il 1944 la media per decennio superò decisamente le 1500. Perfino Lord Salisbury fu indotto a osservare che "a Londra non si può tirare un sasso a un cane senza colpire un cavaliere"». Fra questi nuovi nobili dai denti d'acciaio apparvero ben presto i «baroni della stampa»: Northcliffe, proprietario dei Daily Mail, Rothermere, proprietario del Daily Mirror, Beaverbrook, proprietario del Daily Express, gli Astor, proprietari dell'Observer e del Times. Erano «gente di pochi scrupoli, disposta a esercitare intimidazioni», e «ottennero il loro titolo di pari o acquistandolo o promettendo sostegno a questo o a quello». La morte dell'aristocrazia britannica fu un lungo processo, ed è persino possibile che alcuni suoi membri, asserragliati nei loro castelli, credano ancora d'essere vivi. Ma per molti di essi la morte giunse bruscamente sui campi di battaglia. Quando scoppiò la prima guerra mondiale, i giovani patrizi corsero a arruolarsi e «intere coorti di giovani nobili vennero massacrate» nelle Fiandre o a Gallipoli. «Era dai tempi della guerra delle Due Rose che tanti aristocratici non subivano in così gran numero una morte violenta (...). Fra il 1880 e il 1914 il mondo che essi erano stati educati a dominare e a controllare si rivoltò decisamente contro di loro. E fra il 1914 e il 1918 questo mondo subì un capovolgimento totale». Sergio Romano Uno storico racconta: editori e parvenus, ebrei e avventurieri a caccia di titoli e onori g