Branciaroli che musica Cirano di Masolino D'amico

Branciaroli, che musica Cirano A Bergamo la commedia di Rostand nella traduzione storica di Mario Giobbe Branciaroli, che musica Cirano Inizio in sordina ma splendido sviluppo BERGAMO. Di fronte alla vitalità di certi testi non ci sono riserve che tengano, tanto più che la Storia giustifica tutto; le buone cose di pessimo gusto già contemplate con un sorriso da Gozzano sono ormai diventate ricercati pezzi di antiquariato. Possiamo allora sfruttarle commercialmente; oppure, su di un piano più elevato, cercare di analizzare la natura del fascino che continuano ad esercitare su di noi. Capolavoro «pompier», «Cyrano de Bergerac» entusiasmò i primi spettatori con l'abbondanza dei suoi motivi, tutti familiari a un pubblico che adorava rivisitare le glorie del suo «Grand Siècle» e compendiati nel protagonista, poeta alla Corneille e spadaccino alla d'Artagnan, guascone povero e orgoglioso che generosamente si oppone agli intrighi dei cortigiani anticipando la Rivoluzione. Per rendere vulnerabile quest'uomo erculeo l'autore ne fece un innamorato infelice, ridotto a conquistare la sua bella per interposta persona mettendo le sue eloquenti frasi d'amore nella bocca di un amico avvenente ma privo di «esprit»; la sua mancanza di fiducia in se stesso come corteggiatore dipende da un enorme naso, che lo rende ridicolo e quasi mostruoso. Questa è, naturalmente, la trovata geniale del non ancora trentenne Rostand, che pure ignorava Freud e la simbologia fallica legatile al naso (nonché alla spada, altra appendice caratteristica di Cirano); oggi a noi il personaggio può apparire emblematico dell'uomo messo in crisi dalla propria prorompente sensualità, in un'epoca ipocrita che ufficialmente nega e reprime tali pulsioni. Spesso rivisitato con intenzioni esclusivamente mercantili, vedi la recente, ignobile edizione Hossein-Belmondo, il celeberrimo lavoro viene oggi riletto dal regista Marco Sciaccaluga in una edizione che ha il pregio di metterne in sordina le sollecitazioni spettacolari per sottolinearne la componente linguistica. Culmine di un teatro borghese sempre più amante del fatto visivo, il «Cyrano» prevede per esempio ben cinque ambienti sontuosi e riconoscibili, uno per atto: l'hotel de Bourgogne, la rosticceria Ragueneau, la piazzetta quadrata del Marais con il balcone di Rossana, il campo di battaglia di Arras e il parco del convento delle Dame della Croce. Oggi possiamo lasciare al cinema, inventato appunto per questo, la soddisfazione di tali ingenui bisogni, e contentarci a teatro della intelligente soluzione del- Brandaroli-Cir ano lo scenografo Hayden Griffin, in cui il palcoscenico dove avviene la recita di Montfleury clamorosamente interrotta da Cirano e che ci viene mostrato di spalle, con la sala al posto della parete di fondo, diventa poi con pochi spostamenti a vista un luogo neutro e disponibile a tutti gli usi, riprendendo le sue funzioni di ribalta alla fine, quando l'eroe morto si rialza e ringrazia prima gli spettatori fittizi e poi quelli veri. Una corrispondente sobrietà si riflette nei costumi un po' pallidi di Valeria Manali; e anche nell'azione, vedi il duello durante il quale Cirano compone la sua immortale ballata e che è ridotto a pochi scambi quasi da fermo, con un taglio inflitto al naso del presuntuoso invece della stoccata che ci aspettavamo. In compenso, proviamo piaceri inconsueti dall'ascolto del dettato di Rostand nella saporita traduzione coeva di Mario Giobbe (1898), capolavoro di aderenza allo spirito di originale che solo la sfiducia nelle orecchie del pubblico italiano unita immagino a bassi motivi di lucro ci negava fin dagli Anni Cinquanta. Questa traduzione in versi martelliani è un gioiello quasi unico nella nostra lingua così povera di tentativi del genere; a suo favore va ovviamente anche il fatto che Rostand non è Racine, e quindi pone un modello ragionevolmente emulabile. Dopo un inizio in sordina, con ritmi forse troppo veloci e con la comprensione ulteriormente ostacolata dal velo di un sipario che si frappone fra noi e il finto teatrino che si va riempiendo, l'eccellente, giovane cast prende fiducia, trascinato da un Franco Branciaroli dalla meravigliosa vocalità. Questa non rifulge al meglio nell'attesa ballata «che giusto in fin della licenza io tocco» -, ma prende il volo a partire dalle due grandi tirate del second'atto, «No, grazie» e, prima, «i cadetti di Guascogna», questa quasi farfugliata con irresistibile ironia. Accanto allo splendido protagonista bisogna ricordare alme no Camillo Milli che è il pastic ciere-mecenate Ragueneau, Valerio Binasco, un plausibile Cristiano, e la graziosa Anna Stante, forse soltanto un pochino troppo cordiale per una vera «précieuse»; e il perfido de Guiche di Francesco Origo. Cordialissimo successo al Donizetti, dove alcune ispirate ri me di Giobbe sono state sottolineate con gusto da intenditori, e dove il lavoro sarà replicato fino al 23. Masolino d'Amico Brandaroli-Cirano

Luoghi citati: Bergamo, Gozzano, Guascogna, Rossana