Compagni sì, ma Parigi non è Roma

Compagni sì, ma Parigi non è Roma Gli eredi di Togliatti verso il cambiamento, quelli di Thorez verso il ghetto Compagni sì, ma Parigi non è Roma Rapporti e fratture tra i due partiti comunisti dal '45 OLTI capitoli dei quarant'armi di storia appena vissuti sono diffìcili da rileggere, perché pongono agli spettatori come ai protagonisti una certezza: «Sono stato ingannato», e una doppia domanda: «Quando e come?». Un esempio evidente riguarda i rapporti dei partiti comunisti italiano e francese dopo la Liberazione. Lo storico Marc La zar, già noto per un lavoro su De Gallile e i comunisti, ne ha appena ricostruiti la storia e lo studio sociologico in Maisons rouges, Case rosse (edizioni Aubier), partendo dagli archivi inediti aperti a Parigi e all'Istituto Gramsci e da numerose testimonianze. E' un soggetto classico di scienze politiche, illustrato dai ricordi di Giulio Ceretti sui «due T» (Togliatti e Thorez), apparso da Feltrinelli nel 1973 proprio mentre Marchais faceva a Berlinguer una visita che aveva tutta la solennità di una visita di Stato. Non ne uscì niente. Venne in seguito la falsa commedia dell'eurocomunismo, poi gli anni d'agonia per l'uno e l'altro partito, di fronte alle spinte irresistibili della modernizzazione. Essi reagirono all'opposto. H pcf si collocò come ultimo bastione dell'incorruttibilità bolscevica, si staccò dalla società francese, politica e civile. Il partito italiano si diluì nella stessa società, e rincorre tuttora la sua specificità. I rapporti fra i due si sono fatti tanto inesistenti che nessun giornale francese (comunista o no) ha fatto la minima allusione alle peripezie della lettera di Togliatti. La maggioranza dei francesi ignora che il pei ora è pds. Essendo giovane e non essendo stato contemporaneo di questa doppia storia in cui, come quasi tutti gli intellettuali francesi, sarebbe stato costretto a scegliere un campo, Marc'Lazar ha potuto comportarsi da storico, rendendo cioè l'oggetto della sua indagine un po' astratto, senza ricordi né brandelli di passione. Non ha quella nostalgia che segnava tanto gli scritti scientifi¬ ci quanto i ricordi degli ex. Nato l'uno da una minoranza a Livorno, l'altro da una maggioranza a Tours, negli Anni 20, i due partiti non ebbero storia parallela prima della guerra, anche se Togliatti ispirò, in nome dell'Internazionale, l'ideologia del Fronte Popolare in Francia. Lazar parte dal '45, quando il pei affronta il dopoguerra «con allegro moderato» e il pcf con «allegro vivace», il che è bene illustrato dalle drammaturgie dei ritorni dall'Urss: Togliatti quasi clandestinamente a Napoli, Thorez trionfalmente a Parigi, ma riscattato da Stalin ad opera di De Gaulle, che fa uomo di Stato del disertore del settembre '39. Nel 1944, il pcf si ricostituisce, ma il pei nasce nello stesso tempo dalla clandestinità e dal fascismo. L'uno, in Francia, è il solo partito di massa (5 milioni e mezzo di elettori nel '46, cinque milioni di aderenti alla Cgt), l'altro (2.250.000 membri nel'47) in Italia ha un rivale reale: la de, dotata di identiche strutture d'influenza in tutta la nazione, dello stesso sistema d'egemonia, che i democristiani francesi e i gollisti non sapranno mai attuare. Per circa tre anni pei e pcf partecipano al governo garantendo di fatto l'assenza di situazione rivoluzionaria. Ma Togliatti elabora là teoria della «democrazia progressiva», del «partito nuovo». E' uomo di governo sullo stesso piano di De Gasperi e Nenni, sostiene l'articolo 7 della Costituzione, in una situazione in cui Thorez tende alla frattura. Viene per i due partiti la fase dell'opposizione interna e dell'irrigidimento ideologico imposto da Mosca. Ma il pcf si chiude nel suo ghetto, mentre il pei, più propenso a manovrare, cerca di preservare un'alleanza delle sinistre che dominerà. Le discordanze diventano divergenze a partire dal 1956, diventano manifeste dopo il 1964, con le morti di Thorez e Togliatti, la scomparsa di Krusciov. Con il «compromesso storico», Berlinguer propone una strategia di transizione, non di difesa, nell'eredità togliattiana, mentre Marchais partecipa all'unione della sinistra, per meglio infran- gerla se non la controlla. Il pcf si irrigidisce nella sua identità storica; ultimo a portare il nome di comunista in Europa, si perpetua ripiegandosi nel suo carapace. Il pei, a forza di adattarsi, finisce per compromettere la sua stessa natura. Qual è oggi questa natura? Se non altro è stato il primo a porre il problema. Allo studio di Lazar manca una dimensione: lo studio del «mito italiano» nel comunismo francese. Esso è stato molto potente, fatto tanto di sogno quanto di interrogativi ideologici. Al di là dei comunisti, ha toccato larghe frange d'intellettuali francesi che hanno preso alla lettera, con qualche ingenuità, tutto ciò che veniva dalle Botteghe Oscure. Gli hanno attribuito tinte generose e illusorie. Questo «mito italiano» si è basato su relazioni umane come su testi. Senza dubbio, la simpatia spontanea non era la norma fra i dirigenti dei due partiti. Thorez e Togliatti non si amavano. La versione togliattiana degli scritti e lettere di Gramsci attese più di ventanni la traduzione francese, e in edizione ridotta. Chiusi nella loro «nomenklatlira» e nel loro operaismo, nella loro intolleranza francese, più ancora che ideologica, i dirigenti francesi ignoravano la lingua, disconoscevano l'Italia, come tutti i loro compatrioti. Come i re di Francia preoccupati per Calvino a Ginevra, temevano quel che veniva dalle Botteghe Oscure. I più vecchi vedevano dietro i loro interlocutori le figure di Silone o Tasca, fino al momento in cui il «contagio italiano» toccò realmente gli studiosi comunisti e Althusser commentò Gramsci. Allora, reagirono. Trovavano superbia, se non arroganza, fra gli italiani convinti delle dimensioni della loro cultura, della loro finezza tattica nella politica nazionale, della loro intelligenza strategica nell'universo comunista. Appartenendo al mondo intellettuale, costoro erano sospettati, non sempre a torto, di disprezzo per i compagni francesi che non conoscevano i nomi di Croce, Labriola o Gramsci, avendo letto Saint-Simon, Fourier e Proudhon. Inorriditi dal settarismo francese, gli italiani dispiegavano - negli Anni 70 - una «larghezza di spirito» la cui autenticità non era sempre dimostrabile. Gli stessi modi di essere differivano profondamente. «Gli italiani» sfoggiavano eleganza nell'intrattenere amicizie personali nell'universo dei nemici di classe. Mai, a Parigi, i dirigenti di secondo piano sarebbero stati, come a Roma, gli ospiti abituali delle «terrazze», laiche o democristiane (come nel film di Scola), dove alcuni facevano la ruota come il pavone davanti alle dame dell'ex Roma nera. Lazar non rivela in quale alta misura i leader comunisti erano impregnati di cultura francese. Dai tempi dell'emigrazione, Amendola, Pajetta, Togliatti, Longo possedevano fino in fondo i grandi classici, si tenevano informati sulle novità di libreria. Sapevano collocare i loro compagni francesi nell'insieme della loro Storia. I loro figli, entrati nel pei dopo la guerra, avevano ricevuto quella formazione nell'adolescenza. Tutti amavano la Francia, in una sorta di fascino-riprovazione. Mi ricordo della profonda delusione che provò Amendola quando molti editori francesi rifiutarono di tradurre i suoi stu¬ pendi libri di memorie, col pretesto che egli non era conosciuto. Alcuni nomi fra tanti emergono dai ricordi dell'amicizia: il grande Bianchi Bandinelli, Paolo Spriano, al quale l'intervento discreto del pcf impedì la traduzione in Francia della storia del pei, Giuseppe Boffa, Sergio Segre, Ugo Baduel, Guido Fanti, Giorgio Fanti, Alberto Jacoviello, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Antonio Tato, che insegnarono agli intellettuali francesi che cosa significava «far politica» per i comunisti. Buoni multanti, mascheravano talora i sentimenti profondi dietro il loro esprimersi affettato, senza mai tuttavia scomunicare l'interlocutore per spirito critico. Alcuni avevano il senso dello humour e la capacità di prender le distanze. Infondevano voglia di credere a un comunismo dal volto umano, perché sembravano credervi, a meno che non fossero intrappolati nella loro storia, dalla quale era tardi per liberarsi. Un aneddoto infine la dirà lunga sul prestigio del «mito del pei» su uno spirito francese. Verso il '70, Fauvet, direttore di Le Monde, incontrava a Roma i dirigenti politici. Allora corrispondente di quel giornale, organizzai una colazione privata tra Fauvet e Berlinguer. Alla fine, il direttore di Le Monde chiese al segretario del pei: «L'Ufficio politico le ha facilmente accordato l'autorizzazione di pranzare qui, ospite di un giornalista non comunista, con me?». Berlinguer fu stupefatto: «Io pranzo dove e con chi mi pare. Non ho bisogno d'autorizzazione». «Marchais non avrebbe avuto una facoltà simile», replicò Fauvet. ■ Oggi la domanda è: «Berlinguer diceva la verità?». Perché la demistificazione del pei ha saltato in Francia tante tappe che non lo si considera più di un vecchio feticcio fallace. Ecco perché era utile che il sapiente lavoro di Lazar ci riconducesse nelle vie della vera Storia. Jacques Nobecourt // no del pcf alle memorie di Amendola: «Chi lo conosce?» A pranzo con Berlinguer senza permesso del partito Georges Marchais, segretario del pcf (al centro) al congresso del partito. Partecipò all'unione della sinistra per controllarla o infrangerla A sinistra: lo storico Paolo Spriano. Sotto: Berlinguer, autore di una strategia di transizione e Amendola Angelo Tasca (a destra) era per Parigi ombra del pei Gli scritti di Gramsci furono diffusi in Francia da Althusser