Tanti registi si voltano alla Storia

Berlino prigionera del passato Si apre oggi il 42° FilmFest: parla il direttore de Hadeln Berlino prigionera del passato Tanti registi si voltano alla Storia BERLINO. Con i film americani più attesi del momento (di Woody Alien, Scorsese, Kasdan, Barry Levinson, e del terribile amato canadese David Cronenberg), senza un solo film italiano in concorso (chi è causa del suo mal pianga se stesso), con «The Inner Circle» (Il proiezionista) di Konchalovsky e con molte star annunciate, il 42° FilmFest di Berlino comincia oggi nella città ricomposta che ha dimenticato subito l'atmosfera dell'anno scorso così triste e impaurita per la guerra del Golfo e che non può dimenticare il passato. Due retrospettive (di film prodotti da Hai Roach e di film realizzati negli studi di Babelsberg dal 1912 al 1992), molte cose interessanti anche al Forum del cinema giovane: India, Tagikistan, il mondo ebraico, le registe del cinema tedesco; il debutto di un ottantatreenne, ed è Alain Cuny che dirige «L'annonce fait à Marie», tratto con suprema semplicità dall'opera di Paul Claudel; «La vie de Bohème» di Aki Kaurismaki, versione supersentimentale del romanzo di Henri Murger «rovinato da un certo Puccini», con Rodolfo e Marcello che si son venduti alle riviste di moda e arricchiti, ambientata in una di quelle periferie parigine dove ci sono ancora lo stadio Lenin e piazza Gagarin perché, dice il gran regista, «Montmartre o il Quartier Latin sono ormai sommersi da piccoloborghesi travestiti da artisti». Ma la sindrome spionistica è così forte a Berlino, dopo l'apertura degli archivi della polizia tedesco-orientale detta Stasi, che uno scherzo giornalistico divertente consiste nella finta scoperta d'un falso dossier indicante come spia della Stasi anche il direttore del FilmFest Moritz de Hadeln (nome convenzionale: Eisenstein). Lui non se la prende, ride: però è vero, dice, che dal passato non si riesce a evadere. Anche i film del festival sono prigionieri del passato? Quasi metà delle opere presentate trae la propria materia dalla Storia, cercando nel passato lezioni per il presente. Il festival comincia con Konchalovsky, un regista russo che dopo-dodici anni torna a girare nel suo Paese, e con il racconto d'un piccolo uomo capitato al vertice del potere totalitario sovietico, il proiezionista personale di Stalin. Due film tedeschi su tre si occupano della seconda guerra mondiale, dell'ex Germania orientale. I due fihn spagnoli parlano della guerra civile dei Trenta. Due film francesi analizzano il passato coloniale della Francia: Bertrand Tavernier affronta nel documentario «La guerre sans nom» un argomento sinora tabù per il cinema del suo Paese, la guerra d'Algeria; Pierre Schoendoerffer ripercorre in «Dien Bien Phu» quella sconfitta francese e la perdita dell'Indocina. Il russo Vitalij Kanevskij evoca gli Anni Cinquanta soviètici in «Una vita indipendente». E' una tendenza collettiva: accanto all'altro tema frequente, l'incomunicabilità. Si capisce bene. Dopo quanto è accaduto nell'ultimo tempo, dopo cambiamenti così radicali, forse i registi si sentono in si curi, forse cercano nel passato le origini e la continuità: nell'uso della Storia li trovo meno strumentali dei politici, intellettualmente molto più onesti. L'Europa è cambiata: i festival no, il FilmFest no? I festival, o minifestival, sono sempre più eccessivamente numerosi: la produzione di film specie nell'Europa orientale s'indebolisce, la scelta si restringe, la concorrenza tra festival s'inasprisce. Ma adesso la Germania è un Paese di 80 milioni di abitanti, mettendoci gli altri Paesi di lingua tedesca arriviamo a 100 milioni di persone: è una gran forza, che dà maggiore risalto e necessità pure al nostro festival. A Berlino, abbiamo sempre detto di voler essere un ponte tra l'Est e l'Ovest. Adesso non siamo più un ponte tra sistemi economicopolitici antagonisti, ma tra culture diverse: le frontiere politiche sono in parte cadute, le frontiere culturali sono sempre li. Anche le frontiere interne tedesche, pare: è vero che il FilmFest non è andato be ne, l'anno scorso, nell'ex Berlino Est? E' andato così così. Ci aspettavamo più spettatori, più curiosità, più interesse. Siamo stati un po' delusi. Sospettiamo che gli studenti abbiano frequentato il festival nell'ex Berlino Ovest, e che il prezzo'dei biglietti fosse troppo alto: infatti l'abbiamo ridotto. Certo, le due città rimangono un po' separate: i problemi sociali, le preoccupazioni economiche, i modi di vita non sono certo gli stessi. Dell'assenza di film italiani in concorso le importa qualcosa? M'importa, eccome. Ma cosa ci posso fare? Non è colpa mia se «Il ladro di bambini» di Gianni Amelio è stato offerto al FilmFest e ritirato all'ultimo momento per mandarlo a Cannes. A me è dispiaciuto, anche perché in alternativa non c'era altro. Spero, anzi sono certo, che il delegato italiano del FilmFest, Callisto Cosulich, ritiri le sue dimissioni, sicuramente non date in polemica con noi: senza delegato non posso lavorare. Spero, anzi sono certo, che l'episodio provocherà una discussione nell'associazione dei produttori, che verranno stabilite regole per cui quando un produttore offre un.film non si rimangi poi la parola. Le è parsa una cialtroneria? Cialtroni? Non vorrei estendere un giudizio da singole persone all'intero cinema italiano. Lietta Tomabuoni Il logo del 42° FilmFest di Berlino fra i protagonisti Alien, Scorsese, Kasdan, Barry Levinson e il terribile amato canadese David Cronenberg ■ Due scene del film «Zuppa di pesce» di Fiorella Infascelli In alto Meme Perlini Lucrezia Unte della Rovere e Giovanni ■: qui accanto Lucrezia Lante della Rovere insieme con Robert Patterson nella scena del matrimonio Corso Salani al Forum del cinema giovane, con «Gli ultimi giorni», scritto e interpretato con Monica Rametta, girato sull'isola di Capraia e costato 60 milioni