In amore è sempre Guerra Fredda di Gabriele Beccaria
In amore è sempre Guerra Fredda In amore è sempre Guerra Fredda Washington vieta le «love-story» ai diplomatici MOSCA. Niente amore, siamo americani. Per i diplomatici di Washington nell'ex Unione Sovetica il divieto rimane assoluto, come ai tempi della Guerra Fredda. In compenso, fraternizzare con i nuovi amici delle Russie non è più tabù. Via libera, dunque, alle feste, alle cene e alle partite di tennis. Il dipartimento di Stato ha annunciato una piccola rivoluzione nel mondo delle feluche che eliminerà, un po' alla volta, le tante restrizioni che hanno condizionato la vita dei diplomatici prima della caduta della «cortina di ferro». In realtà - ammettono in molti, sotto anonimato - i divieti di fraternizzare non sono mai riusciti a impedire i contatti (spesso complicati da storie di sesso e prostituzione) tra americani e russi. Anche perché, erano proprio i primi a sollecitarli per spezzare l'isolamento in cui gli stranieri venivano relegati nell'era Breznev. Adesso, la speranza per chi rappresenta gfi Stati Uniti a Mosca e a San Pietroburgo e per chi si trasferirà nelle nuove ambasciate a stelle e strisce in Ucraina, Bielorussia, Armenia, Kazakhstan e Kirghizia è di poter vivere una vita più divertente, non diversa da quella dei colleghi di base a Londra e Parigi. Ma le vecchie paure - si dice non sono del tutto svanite. Ecco perché, nonostante le strette di mano tra George Bush e Boris Eltsin, le promesse di disanno nucleare, lo spettacolare ponte aereo di aiuti umanitari, ì funzionari di Washington hanno messo bene in chiaro che le love-story con le tante e disponibili Natasha e Olga sono «off-limits». Dietro ogni bella russa può ancora nascondersi una Mata Hari del Kgb. Sono fresche le memorie di quelle che in America i giornali hanno definito le «honeytraps», le «trappole d'amore». Lo scandalo più famoso nell'87 - vide coinvolti i marines addetti alla sicurezza dell'amba¬ sciata di Mosca, sedotti da affascinanti spie in minigonna. Due di loro vennero arrestati con l'accusa di aver aperto la «stanza dei segreti»: gli involontari «traditori» (così, almeno, loro si definirono) avevano fatto cadere nelle mani degli 007 sovietici nomi e codici della rete spionistica americana a Mosca. Tutti e 28 i marines - il corpo scelto dell'esercito il cui motto è «Semper fidelis» - vennero richiamati d'urgenza a Washington. Ma il danno ormai era fatto. Il Kgb aveva messo fuori combattimento un bel po' di informatori e il portavoce del Cremlino, Ghennadi Gerasimov, si prese il lusso di completare la beffa con una battuta: «Quanto è successo mi sembra un altro esempio della spiomama statunitense che vede i rossi sotto ogni letto». Come se non bastasse, di lì a poco, si scoprì che la nuovissima sede diplomatica americana a Mosca - costata 190 milioni di dollari - era stata imI bottita di microfoni da solerti operai reclutati dal Kgb. A pagare per quella «spystory» non fu solo l'orgoglio dei marines. Anche il centinaio di dipendenti sovietici - autisti, segretarie, dattilografe, traduttori, cameriere, cuochi - che fino ad allora avevano lavorato nell'ambasciata americana furono bruscamente licenziati. Ora, grazie al nuovo «vademecum» del dipartimento di Stato, potranno essere assunti di nuovo. Comunque - osservano gli esperti - non bisogna farsi troppe illusioni. Sarà difficile che i diplomatici americani trascorrano i week-end nelle dacie dei loro amici russi. Eltsin non ha eliminato le restrizioni che impediscono i movimenti dei rappresentanti e dei giornalisti stranieri oltre un raggio di 40 chilometri da Mosca. La misura vale - è evidente - anche per i diplomatici russi in America, ma a Washington si dice che potrebbe essere presto revocata. Gabriele Beccaria
Persone citate: Boris Eltsin, Breznev, Eltsin, George Bush, Mata Hari
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