Quel grido rauco di Babilonia di Guido Ceronetti

Quel grido rauco di Babilonia Sacre scritture amare. Ceronetti si confronta con il commento biblico di Quinzio Quel grido rauco di Babilonia Senza gli eretici la Chiesa non vivrebbe lì ENTI anni già, dal primo 11 commento biblico di Serti gio Quinzio nelle edizioni I Adelphi, che oggi ne ri-JJ stampano i quattro volumi in uno solo, senza variazioni testuali, in quanto l'autore non ne ripudia niente. Ne scrissi qualcosa allora, ma preferisco vederlo adesso come una novità, contento di ritrovarlo nella nuova veste degno di essere considerato tale. Tutta la vita di Quinzio è passata sopra le Scritture e immediati dintorni, e una parte della mia anche, ma soltanto per squarci, e con parecchie contaminazioni di cui mi rallegro. Ma certamente, senza i lunghi intervalli di convivenza coi testi biblici, tutto di me sarebbe stato diverso; chi li avvicina resta segnato. Ogni tanto penso: ma cosa ti resta di veramente utile per il pensiero, visto che la fede ti sarebbe stata impossibile? Ecco, il lavoro nella lingua ebraica mi resta, quella scritturale, imparata male ma scavata con accanimento; mi resta quello che Quinzio si rifiuterebbe di capire, un lavoro in cui ogni tanto hanno fatto irruzione dei momenti unici, di raptus, di vero arróbamiento per illuminazione filologica, cose che fanno la vita più avventurosa e più larga. Sì, questo, essenzialmente, perchè ragioni per credere il testo non me ne ha fornite/salvo a confermarsi inesplicabilmente, approfondendolo e franandoci, sacro, tra le mie mani. Da scettico («uno che si guarda intomo») non posso dire che sia l'unico librò sacro di questo mondo, ma è incontestabilmente sacro perché, Rabbi Aquibà lo disse, «brucia le mani». Tuttavia i modi di bruciarsele variano molto, tanti quanti le mani. La sacralità è una stella che guida, non deve diventare una camicia di forza. Tra quanti credono sacra la Bibbia il cerchietto d'oro ora è più visibile, ora meno, talvolta manca del tutto. Per me è sacro il canone ebraico soltanto, ma se fossi un pio ebreo i primi cinque libri del canone sarebbero più sacri di tutti gli altri, mentre su questi l'aureola mi appare più pallida, e il massimo della sacralità la sento nei profeti. Per Quinzio l'intero canone tridentino è «parola del Signore» e nel suo commento comprende tutto questo, pur non dedicando capitoli specifici che ai due apo- enfi dèi Maccabei, visti come «immagine del tempo dell'Anticristo». Il degenerare biblico-cristiano nel tempo, nella visione di Quinzio, appare perfino nell'evoluzione semantica popolare del nome «maccabeo»: l'ultima chiesa (l'attuale, secondo il bisogno di contemporaneità del pensare visionario) è un Giuda Maccabeo «macabro» (Maccabeo è la radice etimologica di macabro), piombata in una «mortale e stolta impotenza». Quasi tutto il commento è così, con punte di radicalismo ereticale spasmodiche, conturbanti anche per chi guardi da una certa distanza e si senta fuori contagio. Ereticale, in Quinzio, è proprio la forma mentale, che si riflette nel suo linguaggio, nell'estremismo del suo eloquio proprio, inaccettabile per l'accademia, e da eretico anche la formale sottomissione alla chiesa cattolica, che non gli viene rigettata soltanto perché l'ecumenismo «della fine» ha addormentato i guardiani e non c'è più una posizione teologica ritenuta in grado di scompigliare un gregge ormai scompigliato e vagante. Avrebbe potuto essere arnaldista, gioachimita, valdista, luterano della prima ora e più tardi munzeriano: non cataro, per via del rigetto del Vecchio Testamento, non erasmiano, per amore d'intolleranza. Oggi tutto questo sussiste nel segreto microcosmo della psiche, e non sappiamo da dove veniamo, e di là affiora in stilemi, la disputa sopravviene placata nei convegni, la risposta sulle onde della radio arriva smussata e lascia spàzio a voci che, nel foro interiore, sono tacitamente esecrate. Ma se c'è un medioevo psichico, una violenza cristiana esternamente repressa e che all'interno è di bragia accesa, Quinzio è un. eretico medievale, travestito dal tempo. Questo mi fa vedere, nel suo commento, non tanto una novità commentante, quanto una testimonianza e il mistero del sopravvivere di una simile energia testimoniante, in àmbito cattolico. Stranamente, proprio in quanto testimone eretico, ereticalmente impaziente del regno e ossessionato dall'orrore del tempo storico non messianico, Quinzio finisce col testimoniare la vitalità della chiesa che lo ha espresso e lo tollera, la presenza vivente (anticristicamente vivente, direbbe Quinzio) dell'istituzione ecclesiastica di cui non cessa di proclamare - anche nella forma attenuatissima degli articoli di giornale - la maccabeizzazione colliquativi! finale. In realtà, la chiesa non vivrebbe senza i contro, gli eretici, gli insultatori interni; il fenomeno mi pare unico di un'istituzione organicamente vivente che vive delle rivolte e dei disgusti del suo stesso organismo fin dai decretali o addirittura dai brumosi tempi apostolici. Se non avessero dovuto scrivere i loro adversus haereses gli apologeti non avrebbero avuto granché da fare. Tutto il commento quinziano è uno schiumare di eretico con- tro la sua chiesa, che oggi gli oppone la sua indifferenza avendo capito che l'eresia è una colica nutritiva, e che un Quinzio, molto più di un teologo della liberazione, è in profondo un lievito, un lievito nascosto che serve a far levare una pasta evangelica indurita e appiattita. Ma anche questo è curioso: gli antichi eretici accusavano la chiesa di essere sanguinaria, cupida, scellerata; i nuovi di aver cessato di esserlo, di risparmiargli il rogo, di tollerarli con una specie di ironica condiscendenza. Vedono l'anticristo dove la croce sta in penombra come croce, piuttosto che trasformarsi in forca alla luce del sole. Si è sempre delusi del proprio padre, e mai gli uomini sono così incomprensibili e disperatamente assurdi come quando li possiede il demone religioso. Pur non riconoscendosi altro fondamento che biblico, questo modo di trattare la Scrittura sembra emergere da strati non biblici, prescritturali, presemitici anche: da un'uterale irriconciliabilità col mondo com'è, da un'attesa messianica preesistente alla stessa parola messia nella sua formulazione semitica, da un rancore contro la condizione mortale, contro la legge del morire, da primordi selvaggi della coscienza umana. Questo grido rauco, spogliato della sua camiciatura retorica rituale e della sua inesprimibile cadenza sonora, affiora nel canone ebraico in alcuni scritti soltanto, quelli in cui Psiche intrappolata esce allo scoperto per far udire il suo ululato, passi dei Salmi, di Giobbe e di Qohélet, il gemito di Rachele in Geremia, l'orazione di Ezechia, e ne è impregnato quasi tutto quel che ancora galleggia del naufragio di Babilonia. Forse è Babilonia la patria di questo grido, col suo eroe che va in cérca dell'immortalità, coi suoi oranti che hanno fornito al libro dei salmi formule, canto e angoscia di perdita dell'essere. E al di là di Babilonia, il deserto. Il deserto, erez noràh, terra della paura, generatore d'incubi... Questo rende più violentemente autentica la testimonianza e meno valido il commento come tale, se si deve giudicarlo in base al suo contributo alla conoscenza dei testi. A volte li rischiara di sbieco, quasi per caso, con un getto improvviso (specie trattando del Nuovo Testamento, che è il suo terreno proprio, il suo sbocco), talvolta invece, pur nell'accumulo dei riferimenti, sembra possieda Quinzio un furore di annullamento della Scrittura stessa. (Da vedere il saggio centrale: «La parola crocifissa»: la fede è mantenuta o recuperata in virtù del terrore per il «non senso della propria vita»). Un insonne scontento lo pervade e lo domina, trattando all'acido corrosivo l'intero percorso umano dell'idea cristiana, amata tanto da distruggerla, e l'anello che lega bene o male il cristiano al passato cristiano è gettato nel fiume. Questo tipo di scontento (non vivo certo tra appagati, poiché non contano gli imbecilli, non mi sono certo nutrito di appagamenti, so che cos'è lo scontento di esserci) faccio fatica a comprenderlo. Mi lascia freddo. Mi sembra una inconvenance e un'ingratitudine. Dove Quinzio ammette più soffio speculativo, come nel trattare del prologo di Giovanni, si allenta un poco il nodo della sua inaccettabilità. Che cos'è quel continuo lamento: «duemila anni! duemila I anni!». Sono i giornali e la pub¬ blicità a dire Duemila Duemila, ma là in fondo non c'è nessun Duemila. Anzi, tra poco è già Tremila. Duemila è morte-diDio. L'attesa è tempo ebraico (arabo ed ebraico, biblico e coranico, ereditariamente ma limitatamente cristiano) ma qui c'è spesso un superamento morboso dell'attendere messianico tradizionale, lo straripare di un'irredimita pulsione oscura, il martellare di un'idea fissa. «Dio mi ha chiuso in un sacco» dice Giobbe. Testimonianza moderna, . di perduto centro anche quando c'è, come qui, il centro. Mi pare significativo che nel commento all'Esodo Quinzio salti pasqualmente il capitalissimo e tre volte sacro versetto 3, 14, che risucchia nell'iperrealtà del nome divino rivelato qualsiasi temporalità storica apparentemente afferrabile, scritturale e non scritturale. Con ragione lo salta, perché l'atemporalità divina (il nome non può degenerare nel tempo, non è linguaggio, non è chiesa, lo schema teologico del commento non può trattenerlo) spezza la nuca di quello stregato riferimento temporale a un Messia venuto e assente (a cui la chiusa Maranatà getta un grido che è più di addio che di annuncio), di quel punto fisso messianico nel tempo che dà al suo proprio esistere di uomo oggi, di credente lacerato, solitario, senza setta, un significato. Per me invece è luce che non acceca, e sempre mi pare che Heidegger abbia preso un cammino tortuoso cercando l'essere altrove, avendolo lì, in Esodo 3, 14, a portata di mano: ehyé shelachanì, «Io-che-sono-e-chesarò mi manda»; in latino di Vulgata, senza perdita, ugualmente laconico: qui est misit me. QUI EST è un passo fuori della prigione del tempo, e fuori del dolore umano, ed è doloroso vedersi strappare da una parola questi beni crudeli, il tempo e il dolore. Amara Bibbia. Amaro libro di ammassati libri. Ma nell'informe rapsodia biblica c'è di tutto; i suoi cocci taglienti di bottiglia sul muro, anche in questo heart of darkness di soffocazione per tutti, sprigionano onde ancora, senza ripetersi, nuove come «in principio», di armonie inimitabili. • Guido Ceronetti La fede mantenuta dal terrore per il non senso della propria vita \ y > A y / m H Due versióni di «Giacobbe e l'angelo» di Chagall eseguite con tecniche diverse

Luoghi citati: Babilonia, Rabbi