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o Dopo le polemiche per il film sull'assassinio di Kennedy, gli Stati Uniti rivalutano il presidente Johnson o LBJ contro JFK (\ WASHINGTON ^ I spengono i grandi fuom chi della discussione sul L 1 \JFK di Oliver Stone e, hsj sotto le ceneri, se ne sta accendendo un'altra. Il nuovo tema è LBJ. E' uscito da poco in libreria il primo enorme volume di una nuova biografia di Lyndon Johnson, Lane Star Rising, Nascita di una stella solitaria, di Robert Dallek. Mentre si attende la pubblicazione del terzo volume della monumentale biografia scritta da Robert Caro, Joseph Califano ha deciso di raccontare nel suo Triumph and Tragedy of Lyndon Johnson, i suoi tre anni e mezzo alla Casa Bianca come stretto collaboratore del Presidente. Ma, soprattutto, la rete televisiva Pbs ha mandato in onda recentemente le duo stupende puntate del programma «LBJ», scritto da David Grubin. Non è esclusivamente politico l'enorme interesse che l'America sta riscoprendo per la figura di Lyndon Barnes Johnson, il suo contestatissimo 36° Presidente, l'ultimo democratico prima dell'ondata conservatrice aperta da Richard Nixon nel '68, se si eccettua la disgraziata parentesi di Jimmy Carter. C'è qualcosa, in questo rinato interesse, di più semplicemente umano, come se si volesse riparare a un grande torto, riaggiustare la pagella della storia. Il grande Presidente democratico per eccellenza è per tutti Franklin Delano Roosevelt, che fu il mito a cui anche Johnson si ispirò. Ma, in fondo, più che cambiare l'America, Roosevelt dovette combattere in trincea per non perdere due tenibili guerre, quella con la Grande Depressione prima e quella contro i nazisti poi. L'altro mito democratico è quello di John Fitzgerald Kennedy, rispetto al quale Johnson appariva - lo diceva lui stesso soffrendone - «l'usurpato re illegittimo». Ma Kennedy fece ben poco per cambiare l'Amen ca, se non altro perché non ne ebbe il tempo, Fece ih tempo, però, a forzare i limiti della guerra fredda fino alla soglia di una terza guerra mondiale con la crisi di Cuba e compromise definitivamente gli Stati Uniti nella disastrosa avventura in Vietnam, di cui poi venne addebitata tutta la responsabilità a Johnson. LBJ non aveva alcun interesse per quella che chiamava «quella puttana di una guerra». Temeva che gli impedisse di condurre in porto l'unica cosa che davvero gli stava a cuore, l'edificazione del suo grande sogno, la «Great Society». E, pur venendo ne travolto dalle conseguenze, fu il Presidente che in questo secolo ha più cambiato l'America, impostando tutto quello che c'è di Stato sociale e di diritti per le minoranze. Fu Johnson a fare approvare la prima legge sui diritti civili. Fu lui che abolì la segregazione dei neri. Fu lui a promuoverne il diritto al voto. A lui si deve la fondazione della sicurezza sociale, il sistema sanitario nazionale, il programma di educazione fe derale, l'istituzione dei più im portanti centri culturali e mille altre cose. Tutta la legislazione sociale esistente. Ma, mentre assicurava a Martin Luther King, in un celebre e drammatico colloquio, «we shall overcome», noi trionferemo, sottintendendo «insieme», la canzone con quel titolo veniva cantata contro LBJ dai pacifisti che lo dipingevano come l'assassino del Vietnam. E mentre, abolendo le leggi razziste, Johnson si giocava il consenso del Sud da cui proveniva, 150 città vennero messe a fuoco nel corso di disordini razziali in quattro tragiche estati. Stokely Carmichael predicava la violenza per far trionfare il «potere nero» indicando in Johnson il principale nemico. Del resto LBJ aveva abolito le leggi razziste, ma, suo malgrado, il razzismo c'era ancora. Non a caso, nel partito democratico, prendevano piede fenomeni come quello del razzista dell'Alabama George Wallace. Strano destino quello di LBJ. Era un cumulo di contraddizioni, ma anche una forza della natura. Roosevelt e Kennedy sono stati gli unici due Presidenti della storia degli Stati Uniti che non hanno dovuto lavorare un giorno per procurarsi da vivere. Johnson, invece, non veniva dall'«upper class» del Nord Est. Figlio e nipote di politici locali, era nato nel Texas nel 1909 da una famiglia ambiziosa, ma modesta. Fece studi distratti in una mediocre università del suo Stato. Era un omone di un metro e 90 centimetri e il suo Stetson, il caratteristico cappello da cow-boy, era enorme, un 7 e 3/8 pollici. Il suo ego era altrettanto gigantesco. Chiamava la moglie Lady Bird Johnson perch così le sue iniziali erano LBJ, le stesse delle due fighe. Il cane era Little Beagle Johnson, LBJ anche lui, come il marchio che appariva dovunque nel suo ranch. Aveva un'ambizione politica enorme e una capacità di lavoro infinita. Poteva essere generoso e egoista, arrogante e caritatevole, affascinante e volgare. Il suo fotografo ufficiale alla Casa Bianca ha raccontato che «nessuno poteva fare più rumore di lui succhiando la minestra dal cucchiaio». Vorace come un lupo, mangiava nei piatti di tutti. Johnson riceveva i collaboratori la mattina, mentre, in piedi completamente nudo, si faceva la barba. Quando andava di corpo teneva la porta semiaperta e continuava a parlare. Voleva decidere come si vestivano perfino le sue segretarie. Pretese di insegnare a C anfano anche il nodo alla cravatta: «Il tuo sembra un «BuCITTA' DEL MJFK, il regista Bush a Lee Oswl'unica differencredibili, mentrsidente impedis«una vera demonalmente incapessendo egli unblici i segreti diIl regista ha sotpotesi, quella d uccello floscio», gli disse rifacendoglielo. Riempiva la moglie di corna, anche se aveva obiettivi più modesti e metodi meno spettacolari di quelli di Kennedy, che adorava un certo armadio a muro della Casa Bianca. Lavoratore instancabile, non aveva ore per i pasti, di vorava documenti per gran parte della notte, pretendeva che i suoi collaboratori fossero velocemente rintracciabili sempre e ovunque. Per questo a tutti faceva installare perfino in bagno telefoni collegati con l'ufficio ovale. A tutti imponeva, se andavano a messa la domenica, di sedere sulle panche in fondo, in modo che l'autista potesse convocarli velocemente per prendere una sua chiamata sulla macchina che aspettava fuori. Non faceva e non tollerava che qualcuno dei suoi collaboratori facesse vacanze. Aveva una conoscenza impressionante della macchina politica del Congresso. Dopo essere stato un giovanissimo deputato, riuscì finalmente, con l'ombra mai cancellata di qualche bro glio, a diventare senatore al secondo assalto, a 40 anni. Aveva perso 15 chili in campagna elettorale, sconvolgendo la gente con i suoi arrivi dal cielo, in elicottero, in ogni buco del Texas. Quando scendeva, la gente era ancora più stupita, perché lui chiamava anche il più oscuro contadino per nome, come se fosse una vecchia conoscenza. «Come è andato il raccolto, Al?». Intanto beveva come una spugna il suo «Cutty Sark» con acqua e fumava come un turco. Infatti un brutto infarto lo portò a sfiorare la morte. Per questo gli rimase, anche da Presidente, la paura di dormire da solo: «E se urlo e non mi sentono?». Fu il più potente capogruppo del Senato di tutta la storia degli Stati Uniti. Di tutti i senatori conosceva vizi e debolezze. Faceva votare tutti come voleva lui. In quegli anni, per fare carriera, si spostò su posizioni moderate, per non scontentare il suo elettorato conservatore del Sud. Ma continuava a nutrire il suo sogno, poter costruire un giorno la «Grande Società» e passare alla storia come l'uomo che era riuscito a fare quello che nemmeno il suo mito, Roosevelt, era riuscito a fare: eliminare completamente la povertà. Quando sperava di diventare finalmente Presidente, spuntò l'astro Kennedy. Johnson ne soffrì come e più della sconfitta nella prima campagna per diventare senatore. Ma accettò lo stesso il posto di vicepresidente che Kennedy gli offrì, nonostante suo fratello Robert, che l'odiava ricambiato, fosse contrario. Poi la tragedia di Dallas del novembre '63 spianò la strada a Johnson in un modo imprevisto. Stone ha riciclato una vecchia tesi: Johnson era dietro l'omicidio di Kennedy perché voleva condurre più a fondo la guerra con il Vietnam, facendo così gli interessi del «complesso affaristico-militare», come lo aveva chiamato Dwight Eisenhower. In realtà, negli appena tre anni della presidenza Kennedy, il «complesso affaristico-militare» raggiunse la gloria e la potenza che-mai aveva avuto nella storia degli Stati Uniti, con una salita in freccia delle spese per la difesa. Negli anni di Johnson e in quelli immediatamente successivi, per effetto delle sue leggi, salirono invece alle stelle, come mai nella storia americana, le spese sociali interne, surclassando le spese per la difesa nonostante l'impegno in Vietnam continuasse a crescere. «Come accidenti faccio a-venir fuori da questa guerra?» diceva sempre Johnson, costretto a mantenere un impegno di parola assunto prima da Eisenhower e poi, soprattutto, da Kennedy. Non capiva quella guerra. E così chiamò a dirigerla gli uomini di Kennedy, convincendoli a rimanere con lui. Aveva un enorme complesso sociale e culturale verso quei signori laureati a Harvard che popolavano la «Nuova Camelot» kennediana di bellezza e distinzione. Chiamò vicino a sé Dean Rusk e, soprattutto, il distintissimo Robert McNamara, che assicurò vittorie veloci e poco cruente, fino a che, prima di dimettersi dopo l'offensiva del Tet della fine del '67, ammise di essersi sbagliato. Poi, travolto dalla contestazione, anche Johnson, nel '68, dovette ritirarsi dalla corsa per la rielezione. Un caso unico nella storia americana. Si chiuse nel suo ranch nel Texas. Mantenne l'abitudine di farsi recapitare dei rapporti prima di dormire. Solo che adesso erano quelli del fattore, che gli diceva quanti vitelli erano nati. Intanto LBJ beveva forte e fumava, nonostante le cattive condizioni del suo cuore. Era ingrassato. Si era trasformato in una specie di vecchio hippy, con una corona di buffi riccioli bianchi dietro le enormi orecchie. Con nessuno accettava di parlare di un fatto che non fosse occorso almeno 25 anni prima. Ma continuava a fare quel brutto sogno che l'aveva perseguitato negli ultimi anni alla Casa Bianca: LBJ è solo in un enorme spazio vuoto, si sentono urla lontane che si avvicinano sempre più, la folla arriva e lo ricopre di insulti, poi comincia la pioggia di pietre. LBJ, sconvolto e sudato, si svegliava di colpo. Ancora una volta non avrebbe dormito. Fino a quella notte in cui, a soli 64 anni, LBJ invece non si svegliò. Era il 22 gennaio del '73. Cinque giorni dopo, con il trattato di Parigi, finì la guerra del Vietnam. Paolo Pauarini Erede di una guerra disastrosa e persa come il Vietnam, ne fu indicato come responsabile. In lui i pacifisti videro il nemico. Ma i biografi ricordano il suo grande sogno di giustizia sociale: diritti dei neri e sistema sanitario, opere pubbliche e centri culturali. Finì nel suo ranch fra incubi e whisky Il texano Lyndon Baines Johnson, vicepresidente fino all'attentato, si definì «usurpatore illegittimo» del suo predecessore Kenned La guerra nel Vietnam fu addebitata a LBJ, ma lui si chiedeva: «Come posso uscirne?». A Martin Luther King (a sinistra) disse: «We shall overcome», vinceremo. A destra, Franklin D. Roosevelt: era il suo mito