Don Minzoni, carte sparite

Don Minzoni, carte sparite Gli atti del processo sarebbero bruciati durante la guerra Don Minzoni, carte sparite Fini: «Impossibile dimostrare la colpevolezza dei fascisti» Lo storico De Rosa: «Ma è stato un assassinio politico» ROMA. Esulta il segretario missino Gianfranco Fini: «La storia ci dà ragione». Reagisce Arnaldo Forlani: «La storia non si stravolge». E via, subito, con lo storico, anzi con gli storici (al momento due) che scendono in campo. Tanto per cambiare ci sono di mezzo carte bruciate, carte sparite, antiche testimonianze e imminenti elezioni. Adesso si riapre anche il caso don Minzoni, l'arciprete di Argenta assassinato a bastonate nel 1923. Il sacerdote martire del fascismo, per l'esattezza delle squadracce del ras ferrarese Italo Balbo. Ma approfittando del clima, assai propizio alle revisioni storiche, il msi ha chiesto al governo di saperne qualcosa di più. Bene, cioè male: il governo non ha più elementi. Tra incendi bellici e confusioni post-belliche la documentazione sull'omicidio e gli atti dei due processi (uno celebrato negli Anni Venti e l'altro nel 1947) sono spariti. Di qui l'entusiasmo di Fini che interpreta il tutto come «l'impossibilità storica di confermare il pregiudizio» delle responsabilità di Balbo. Entusiasmo accresciuto dalla posizione, un po' pilatesca, della magistratura bolognese secondo cui si potrebbe anche «ove ne sussistessero i presupposti di fatto e di diritto», arrivare a un giudizio di revisione. Cui, naturalmente, si oppone fin da adesso il professore (e senatore de) Gabriele De Rosa: nulla significa la sparizione delle carte. «Certo - ha detto - è che don Minzoni fu assassinato e che fu un assassinio politico». De Rosa, presidente dell'Istituto Sturzo, ha in mano il diario dell'avvocato Coccia, difensore degli eredi del sacerdote, da cui emergono in modo chiaro le pressioni dei fascisti. Fini, invece, punta tutto su quei documenti che a suo tempo sancirono in tribunale l'innocenza del quadrumviro. Innocenza, d'altra parte, messa in discussione da un altro processo intentato allora da Balbo contro la Voce repubblicana che l'aveva indicato, con tanto di prove, come mandante. In quel caso i giudici assolsero il giornale (e l'articolista che era Randolfo Pacciardi). Vicenda remota, dunque, e già piuttosto intricata nei particolari. Eppure non esattamente misteriosa: quel prete «irregolare» e generoso, eroe di guerra e amico dei socialisti, iscritto al partito popolare, grande organizzatore e tutt'altro che disposto a chinare il capo di fronte alle violenze fasciste, fu senz'altro un martire. Ucciso, magari non intenzionalmente - una «lezione» che va oltre ai suoi scopi - da un'atmosfera di odio, furore e sopraffa¬ zione. Avevano già tentato di bruciargli il circolo. «Quando un partito (fascista), quando un governo, quando uomini in grande o piccolo stile - scriveva prima dell'imboscata - violentano, perseguitano un'idea, un programma, un'Istituzione quale quella del partito Popolare o dei Circoli cattolici, per me non vi è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole proporre. La religione non ammette il servilismo ma il martirio». Era una vittima designata, don Giovanni. E così fu: la testa spaccata a colpi di mazza, le impronte di sangue sul muro di casa. Il primo processo finì con un'assoluzione generale. A rileggere le cronache, «gli imputati, subito scarcerati, vengono salutati dalla folla e portati in trionfo per le vie di Ferrara, al canto degli inni fascisti». Ventiquattro anni dopo, al secondo processo, dei colpevoli non c'era nessuno: tutti morti. In compenso, dopo anni di oblio, don Minzoni era divenuto un simbolo. Il sacerdote coraggioso che con la sua morte aveva riscattato tanti cattolici che s'erano invece piegati al fascismo. La sua militanza popolare ne fece (legittimamente) un eroe bianco, democristiano. Ricordato da biografie, film, celebrato da Papi e uomini di Stato. E al di là delle elezioni e della ventata di revisionismo storico su eventi di 70 anni fa, in fondo stupisce che il missino Fini abbia puntato proprio su don Minzoni. «Non ci sono dubbi sulla matrice fascista dell'attentato - disse il presidente Cossiga nel settembre del 1990 -. Il problema, casomai, è quello di capire se venne ucciso a legnate o a sprangate». Si potrebbe cominciare col non disperdere (o ritrovare) i documenti su quel passato sanguinoso. Filippo Ceccareili Don Giovanni Minzoni

Luoghi citati: Argenta, Ferrara, Roma