Tyson ko, il suo ring sarà la prigione

Tyson ko, il suo ring sarà la prigione Per i giurati ha violentato la ragazza, in nove ore di camera di consiglio distrutto un mito Tyson ko, il suo ring sarà la prigione Rischia 60 anni, non combatterà più WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Mike Tyson ha sussultato tre volte l'altra notte nell'aula di tribunale della Marion County di Indianapolis, quando, per tre volte, il portavoce della giuria ha pronunciato la parola «colpevole» a proposito dell'accusa di stupro e di altre due di «condotta deviente» di cui l'ex Dynamite Kid era stato chiamato a rispondere. Non ci sarà più il combattimento da 100 milioni di dollari per tentare la riconquista della corona mondiale dei massimi contro Evander Holyfield, che aveva già anticipato di non essere disposto a scendere sul «ring» con un condannato. Non ci saranno più combattimenti di nessun genere, tranne quelli quotidiani che Tyson, adesso 25enne, dovrà sostenere per trascinare la vita in un penitenziario lungo un numero dì anni che potrebbe arrivare fino a 60. Non gli daranno, comunque, 60 anni, essendo questa la sua prima condanna da maggiorenne, dopo lo scippo per cui venne rinchiuso in riformatorio a 12 anni. Il giudice del processo, Patricia Gifford, ha deciso che comunicherà la sentenza il 6 marzo. Si prevede una condanna tra gli 8 e i 12 anni, forse 10, dei quali almeno la metà Tyson dovrà passare tra le sbarre. Il suo difensore, Vincent Fuller, ha già annunciato ricorso in appello, ma le speranze di Tyson di ottenere una sentenza di assoluzione sono a questo punto minime. Resterà a piede libero, in libertà vigilata, fino al giorno della sentenza, dietro pagamento di una cauzione di 30 nula dollari, per ironia della sorte la stessa cifra che il pugile disse di avere in tasca quella fatale notte dèi 19 luglio scorso, quando invitò nella sua camera all'Hotel Canterbury la 18eime Desirée Washington. L'accusatore di Tyson, il temibile Greg Garrison, si era opposto alla libertà vigilata, ma Fuller ha convinto la Gifford che sarebbe stata un'inutile crudeltà spedire il condannato subito in galera. In effetti è così, anche se, m tre settimane, uno come Tyson qualche guaio potrebbe sempre combinarlo, magari contro se stesso. , I guai e Mike sono stati una coppia fissa da quando «Dynamite Kid» era ancora un bambino e, anche se nel processo iniziato il 27 gennaio a Indianapolis, i precedenti sono stati, secondo una prassi garantista quasi sempre rispettata, tenuti fuori dalla porta dell'aula, non c'è dubbio che l'immagine di bestione violento, di schiaffeggiatore della ex moglie Robin Givens (alla quale ha dovuto pagare 125 milioni di dollari), di molestatore di ragazze e palpeggiatore delle -loro parti molli, di uomo facile alla rissa e alle esplosioni di collera inconsulta, erano ben presenti nelle menti dei 12 giudici (8 uomini e 4 donne, 9 bianchi e tre neri) che l'hanno condannato. Mentre aspettava il verdetto, Tyson sembrava un informe bambinone cresciuto troppo. Ma aveva capito che per lui le cose si erano messe male. I giurati hanno impiegato 9 ore per raggiungere l'unanimità necessaria sul verdetto, molto più di quei 91 secondi con cui Tyson raggiunse l'apice della carriera spedendo al tappeto Michael Spinks il 27 giugno di 4 anni fa. Ma, dopo il verdetto, proprio mentre Tyson, lasciando l'aula, sembrava prendere a zampate l'aria che lo circondava, qualcuno dei giurati ha parlato con aria sicura. «Abbiamo valutato il caso in sé e abbiamo deciso di non preoccuparci delle implicazio ni». Era fin troppo chiaro a cosa si stava riferendo, essendo la grande maggioranza della commuta nera convinta che Tyson sia stato vittima di una discriminazione razziale, che non colpì William Kennedy Smith, agevolato anche da un pregiudizio sociale a suo favore. Il rosso e duro Garrison, un avvocato privato «affittato» dal tribunale di Indianapolis a 70 dollari l'ora fino a un tetto massimo di 20 mila dollari, non ha resistito alla tentazione di commentare la sua vittoria. «Con questo processo abbiamo lanciato un ammonimento ai grandi divi dello sport - ha detto -. Abbiamo visto troppe volte che non conta quello che fa una superstar. Questa volta un comportamento arrogante non è stato tollerato, almeno in questa contea». E, con questa dichiarazione, Garrison ha fornito un altro possibile bersaglio alle prevedibili proteste della gente di colore: non solo una sentenza inquinata da una vena di razzismo contro un mito dei neri trattato diversamente da un mito dei bianchi (in quel caso un nome), ma anche una sentenza esemplare, come per far pagare a Tyson un conto anche di altri. Desirée ha espresso «sollievo» per la condanna. E' stata più fortunata di Patricia Bowmann, l'accusatrice di Kennedy. Aveva di fronte un uomo che a tutti sembrava una «bestia». Aveva al fianco un pubblico ministero molto più abile e deciso dell'amebica Moira Lasch di Palm Beach. E contro si è trovata un avvocato più famoso di Roy Black, ma meno bravo alla prova dei fatti. Fuller ha sostenuto che Desirée era stata mossa dalla delusione di essere considerata solo il passatempo di una notte, ma poi, per mettere in buona luce il suo cliente, ha detto che Tyson l'aveva pregata di restare con lui. Garrison si è infilato in questa contraddizione e l'ha fatto a pezzi. Paolo Passarmi Il campione tradito dagli errori del suo avvocato Grande vittoria per Desirée Con la calma e la naturalezza ha convinto la corte Il pugile resta per ora in libertà A marzo verdetto definitivo Desirée Washington, la miss che ha accusato Tyson. A destra, il suo avvocato Greg Garrison alza il pugno in segno di vittoria Mike Tyson lunedi notte mentre lascia il tribunale di Indianapolis subito dopo aver ascoltato il verdetto di colpevolezza. A sinistra, l'ex campione con la moglie Robin Givens da cui ha divorziato versandole una forte somma

Luoghi citati: Indianapolis, Washington