Haley, la rivincita delle Radici

Haley, la rivincita delle Radici Lo scrittore nero americano morto ieri a 70 anni. Dal suo best-seller il film televisivo Haley, la rivincita delle Radici Dalla biografia di MalcolmXalla saga di Kunta Kinte La storia scritta dai vinti, senza velleità rivoluzionarie MALCOLM X mi guardò con aria severa dicendo: "Voglio uno scrittore, non un interprete". Ho cerca Ito di essere un cronista obiettivo. Ma Malcolm X era la personalità più elettrica che abbia mai conosciuto e ancora non riesco a convincermi che è morto». Così scriveva, nel 1965, Alex Haley nell'Epilogo dell'Autobiografia di Malcolm X, che il rivoluzionario nero americano gli aveva dettato, senza avere la possibilità di rileggerla, giacché fu assassinato il 21 febbraio dello stesso anno. Un singolare incontro, quello tra il capo dell'ala intransigente, non istituzionalizzata dei Musulmani Neri ed il nero borghese, sostanzialmente moderato, Alex Haley. Cresciuto nel Sud, in Tennessee, Haley si era arruolato nella Guardia Costiera degli Stati Uniti senza aver frequentato scuole superiori. Si «era insegnato» a scrivere e al momento del congedo, nel '59, dopo vent'anni di servizio, era Chief Journalist, giornalista capo. Il suo primo incontro con Malcolm X, che in quel momento soprattutto lo incuriosiva, era stato tempestoso. «Voi siete uno di quegli strumenti di cui l'uomo bianco si serve per spiarci!», lo aveva apostrofato. Haley non si diede per vinto, e d'altronde Malcolm X, che conosceva bene l'importanza decisiva dei media, accettò prima che Haley scrivesse un articolo sui Musulmani Neri e in seguito, ferma restando la loro distanza ideologica, di dettargli la sua autobiografia, che fu un successo mondiale (in Italia la pubblicò Einaudi). La carriera di Haley scrittore nasce così per intermediazione, come prolungamento del suo mestiere di giornalista affermato e di intervistatore. E si carica, se si vuole, di zone inesplorate e di interrogativi senza risposta. In che misura, costruendo un libro dal taglio incisivo e dall'impatto innegabile, Haley operò delle scelte e, soprattutto, provvide a opportune omissioni? I gruppi radicali, neri e bianchi, lo accusarono di aver premuto il pedale della confessionalità individuale a spese della professione ideologica, e soprattutto di aver colpevolmente attenuato l'aspetto classista, trascurando o marginalizzando il Malcolm X operaio di fabbrica, mentre veniva accentuata l'etnicità. Ma Haley, ancora nell'Epilogo, insisteva su un punto chiave, su Malcolm X capace di «smascherare le nostre menzogne», di gridare verità che né bianchi né neri spesso volevano sentire. Solo nel '74, Haley decise di mettere in cantiere un libro completamente suo, e significativamente ne pubblicò un assaggio sul Reader's Digest, di cui era assiduo collaboratore. Il libro, un volume di 587 pagine, apparve nel '76, lo stesso anno dell'elezione di Jimmy Carter, e balzò subito in testa alle classifiche. Si chiamava Roots, Radici, e fu tradotto in tutto il mondo. Da noi, in edizione alquanto prosciugata, uscì da Rizzoli. In un momento di relativa stasi nelle fortune della letteratura nera negli Stati Uniti, quando il gruppo più militante della rivolta, le Pantere Nere, si trovava ormai alle corde, i suoi capi esuli o, addirittura - pensiamo a Eldrige Cleaver - «pentiti» e rientrati nell'ordine costituito, Haley in qualche modo popolarizzava, e certo stemperava, un motivo basilare nei codici della protesta: il recupero del passato africano. Ne abbiamo registrato infinite varianti, la più vistosa il «nascafarianesimo» dilagato dai Caraibi grazie al reggae di Bob Marley; ne conosciamo una delle pa¬ role d'ordine più stringenti, «black is beautiful», nero è bello. Da buon giornalista, Haley estrapolava un canone, un percorso. Se agli schiavi africani era stato negato un passato, sulla scia del razzismo becero ma anche a seguito di dottrine antropologiche sul «primitivo», questo passato di civiltà, di sofferenze, andava invece rivendicato, ed espresso con una sola, breve parola, emblema e segnale. Il presupposto di Radici si incontra nelle ultime parole del liI bro, quando Haley scrive che le storie sono state scritte in genere dai vincitori. La vicenda leggendaria dell'africano Kunta Kinte strappato alla sua terra e delle sei generazioni discese da lui vuole fornire un esempio di storia scritta dai vinti, ma senza l'urto e l'aggressività di un rivoluzionario; all'opposto, nella prospettiva di un Paese diverso ma comune. Haley come Sidney Poitier, invitato a cena. LAfrica di Haley è, nonostante tutto, un'Africa di comodo, incardinata nella memoria collettiva ma recuperabile soltanto nel racconto, con un marchio americano, volontario o inconscio (lo si nota persino negli africani che discendono da schiavi ricollocati dagli Stati Uniti, in Liberia, in Sierra Leone). LAmerica, una drammatizzazione rovesciata di Via col vento. Insomma, il filtraggio consegna al lettore un prodotto accettabile, e non a caso se ne impadronì la televisione trasformando in soap opera la «saga di una famiglia americana», come dichiara il sottotitolo di Radici. Americana, e non afro-americana, che è dizione invalsa tuttora persino nei Dipartimenti di tutte le università americane. C'è di più, e basta pensare allo scarso successo del libro in Germania o del successo in Italia e attenzione - Irlanda. Difatti, i Paesi che avevano espresso un'emigrazione povera e discriminata si riconobbero almeno in parte nei neri di Haley. La ricerca delle radici diventò persino una moda, una procedura. Sotto questo profilo, l'ex giornalista della Guardia Costiera e di Reader's Digest aveva fissato un precedente, stabilito una costante. Procedura compromissoria, se si vuole, ambigua, ma non per questo da respingere e in virtù della quale Haley ha eclissato o pietrificato Malcolm X. Sarebbe istruttivo chiedere un parere a Colin Powell, il primo nero capo di stato maggiore delle forze armate degli Stati Uniti. Claudio Goriter Lo scrittore nel 1979, con il senatore John Warner e Elizabeth Taylor, durante la presentazione del film-tv tratto dal suo best-seller Alex Haley con il primo interprete di Kunta Kinte, il protagonista dello sceneggiato «Radici»