NEL LABIRINTO DEL RINASCIMENTO di Carlo Carena

NEL LABIRINTO DEL RINASCIMENTO NEL LABIRINTO DEL RINASCIMENTO Polena: quando il linguaggio era un caos proprio vero che si può scoprire l'America stando in casa, rifare il viaggio di Colombo su un atlante. Addirittura su un atlante linguistico lo rifa, senza muoversi dal suo studio come il geografo ritratto da Vermeer, il nostro Gianfranco Folena in uno, e un po' in tutti i capitoli raccolti nel Linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale (Bollati Boringhieri, pp. 291, s.i.p.). Folena non è mai dei linguisti astratti, che appuntano con uno spillo una parola e la lasciano seccare sotto la lente; che si pascono di sola letteratura e di linguaggi aulici. Questo libro è tutto intriso di realtà viva, evita quanto può le scritture letterarie per scegliere quelle sociali e materiali: la tecnologia, le scienze naturali, il dialetto, il gergo, il teatro. E quando vi entra uno scrittore, è piuttosto il Pulci che il Bembo, coinquilino evidentemente inevitabile ma abbastanza sgradito. Protagonista è il «caos anticlassico», proprio nel Rinascimento; sono non le sistemazioni ma i fermenti, l'irruzione di vocaboli e linguaggi sconvolgenti, specchio di quanto altro bolliva in pentola e all'orizzonte; degli scompensi sociali fra ambienti diversi, della parte del mondo aperta e dinamica. Appena Colombo si muove, alla fine del secolo, i primi segni dell'allargarsi della coscienza del mondo si avvertono nella lingua. Poi si sconvolgerà il paesaggio agricolo e il menù alimentare dell'Europa; ma nelle lingue avviene subito un dislocarsi di termini all'interno e all'esterno, che spazzano via l'approssimativo linguaggio marinaresco, utile solo per una navigazione alla buona dentro un catino d'acqua, e il ristretto regesto botanico-zoologico che risale ancora ad Aristotele e a Plinio. L'italiano ha fin lì usato il casareccio bonaccia, ora accoglie dai Paesi atlantici la calma e la tormenta anziché il bonario fortunale, la tramontana per Nord. Anche rotta è un neologismo cinquecentesco, come cabotaggio che Folena preferisce far derivare da Caboto anziché da cabo, «promontorio». Colombo ha lasciato personalmente un'impronta «determinante» anche nella nostra lingua «per la sua straordina- ria curiosità del mondo, per la sua singolare cultura e anche per i suoi errori e le sue generose illusioni», scrive Folena. Di fronte all'ignoto, s'informò logicamente sui nomi delle cose o cercò di riferirne per analogie: il fico d'India è frutto di una rassomiglianza col conosciuto e di un abbaglio madornale: «l'homo viator è sempre un animai symbolicum, e analogicum, continuo produttore di metafore che hanno come tenor il nuovo e l'ignoto e come vehicle il vecchio e il familiare. Sono metafore che esorcizzano l'horror vacui, facendo conoscere il dissimile col simile: la storia delle scoperte si configura linguisticamente come un'assimilazione o appropriazione metaforica del mondo». Una posizione e un'operazione diverse da quelle del padre Adamo; anche l'esploratore è un «onomatoturgo» in un nuovo Eden ignoto, ma ben presto ben poco irenico. La vicenda della parola cannibale, quale è narrata da Folena nel saggio al centro del volume, «Prime immagini colombiane dell'America nel lessico italiano», è illuminante: né Folena si risentirebbe se usassimo anche solo questo «aneddoto» per illustrare il suo volume: «La storia - scrive egli stesso con quella positività»a cui abbiamo già accennato - è sempre fatta di aneddoti "significativi", che permettano di penetrare la realtà e la mentalità del tempi». Cannibale, dunque, si diffonde nella primavera del 1494, due anni dopo ca- noa. Dapprima è piano, Canabàli (los canibales, scrive Colombo nel suo diario), o Cam-, balli, nome di una gente esotica dell'interno di Haiti, facilmente assimilata ai Lestrigoni e al Polifemo di omerica memoria, «nomini bigi con visi larghi come Tartari, con capelli stesi a mezo alle spalle, et mangiano carne umana et fanciulli et homeni castrati, che loro li tengono a ingrassare come li capponi, et poi li mangiano» (Giambattista Strozzi da Cadice il 19 marzo del 1494). Con questo nome e con queste notizie muta rapidamente anche l'idea dapprima ottimistica dell'aborigeno americano come buon selvaggio: una determinazione semantica usata anche da bandiera per il genocidio di quelle popolazioni. Ma questi non sono che alcuni, anche se cospicui e particolarmente significativi, ingressi rinascimentali nella lingua italiana, cui dedica la sua attenzione il nostro glottologo. La fine dell'equilibrio politico e l'inizio del predominio straniero in Italia nel corso del XV e XVI secolo segnano infatti l'interruzione del modo di comunicare cancellieresco, quindi lo sviluppo della koiné cortigiana; eliminano ogni centro d'irradazione così linguistica come politica. Allora, secondo l'analisi sviluppata da Folena soprattutto nel primo dei saggi qui raccolti, su Espansione e crisi dell'italiano quattrocentesco, che risale agli albori della sua attività di studioso, 1953, ma già rivela un piglio e un'autorevolezza straordinari, si verifica una più netta separazione fra la storia dei dialetti e quella della lingua. Come l'affermazione del volgare nelle cerchie umanistiche porta alla normalizzazione grammaticale della nuova lingua, ecco affermarsi sul finire del Quattrocento una letteratura anche in dialetto conscia dell'uso del proprio strumento espressivo, specialmente nell'ambito di determinati generi, quale il teatro. Di qui ì saggi successivi sul milanese Benedetto Dei, con un preciso e gustoso Glossario, e sul teatro comico veneto. Accanto alla coscienza del dialetto si affermano le necessità e la coscienza anch'essa nuova delle scienze naturali e un accentuarsi della concettualità nelle arti figurative (chiaroscuro leonardesco); un elevarsi della consapevolezza dell'artista quale si manifesta nella lingua stessa del Tiziano, mai «dialettale» nelle sue lettere come non è mai «dialettale» nella sua pittura, capace di un sermo rusticus nobile. Un dato di lingua è rapportato ancora una volta dal nostro studioso a un dato di costume, ad una situazione reale. L'atteggiamento della lingua epistolare di Tiziano, espressione di contenuti e sentimenti elevati pur nella sua concretezza, e simile alla sua pittura dagli ampi orizzonti di luce cangiante, dalla profonda penetrazione delle psicologie e dei portamenti, consuona con le tendenze del suo momento storico, con l'affermarsi di un sentimento nuovo della terra, del tempo e della natura: «un sentimento universale che trasforma insieme la vita delle corti e quella dei campi». Questo saggio, del 76, sulla Scrittura di Tiziano, apparentemente stravagante, apre anch'esso gli orizzonti stessi della disciplina linguistica, estende lo spettro dell'analisi con una nuova concezione della lingua, in cui i bembeschi si allontanano come lumicini e fanno spazio alla vita. E' la non ultima lezione di Folena, che l'ha perseguita con fedeltà e risultati eccezionali, come anche qui si documenta, per oltre un trentennio di studi, portati ora per noi anche fuori dal suo ambiente scientifico e capaci di starvi anche grazie ad una scrittura di esemplare trasparenza e spesso (rimandiamo ancora soprattutto al saggio su Tiziano) di autentiche doti letterarie. Carlo Carena Un lungo viaggio nelle scritture materiali: gergo, teatro, tecnologia I neologismi del Cinquecento, le parole scoperte da Colombo

Luoghi citati: America, Aristotele, Europa, Haiti, India, Italia