BERBEROVALa Russia è un sogno

BERBEROVALa Russia è un sogno BERBEROVALa Russia è un sogno LaRussaè un sogno SFILADELFIA TIA attento a non romperla! Poche settimane fa, su quella sedia si è seduto Marcello Mastroianni. Era venuto a trovarmi perché voleva fare un film dal Male nero. Ma non ci conto: non si sono fatti più vivi. Comunque per il ruolo di Evgenij Petrovic Mastroianni non è l'ideale. Io non gli ho detto nulla, ma dimostrava settantanni, troppi per il protagonista di quel racconto». Parte così, sotto il mirino dei suoi occhi attenti, un lungo incontro con Nina Berberova. Nell'appartamento lindo e quasi spartano dove la scrittrice russa (ma emigrata dal 1922) ha da poco festeggiato i novant'anni. Dieci piani sopra il Delaware, che s'insinua tra quartieri popolari, piccole chiese di mattoni, strade dal nome di albero, fumanti ciminiere e rotaie gelate. Per una donna da sempre e ancora assetata di solitudine e libertà d'azione, armata contro ogni sentimentalismo e «nido», l'ideale «posto di combattimento». Ci vogliono forza, equilibrio e «l'entusiasmo folle dell'agire». E l'autobiografico II corsivo è mio conferma che la figlia ribelle di Natalija e Nikolaj Berberov ha dovuto attingere a piene mani in queste risorse per scrivere quei classici sottili - come L'accompagnatrice - che, pur tardivamente, l'hanno resa celebre in tutto il mondo, e insieme fuggire e sopravvivere: a tutti, alla sua Pietroburgo, a Berlino, a Sorrento, a Parigi, fino a New York, alle università di Yale e Princeton, da un anno in questa Filadelfia dove assomiglia nuovamente a uno di quegli esuli, così intirizziti, così orgogliosi, dei suoi romanzi. Sulla parete sopra il tavolo di lavoro è appesa una sola fotografia: rappresenta il mondo originario di Nina Berberova. Manca poco alla deflagrazione. E' l'otto settembre 1923, Berlino. La scrittrice è seduta tra sette uomini, fragili espatriati e poeti. C'è Chodasevic, scrittore e suo primo «compagno» («Non mi sposo mica io, sono una donna di principi!» s'impenna ancora), c'è Andrej Belyj, Muratov... «Tutti morti. Ricordo quando abbiamo deciso di farci fotografare insieme. Sentivamo che stavamo per separarci per sempre. L'unica altra copia di questa fotografia è ad Arles, nelle mani di Hubert Nyssen, il mio editore». Nel nominare il patron delle edizioni Actes Sud, il detentore dei diritti universali per tutte le opere di Nina Berberova, la scrittrice usa le parole più dolci. Hubert Nyssen occupa un posto elevato quanto meritato nell'apparentemente vuota scala degli affetti della Berberova. E' stato lui a scoprirla nel 1985 e a farla conoscere universalmente, racconto dopo racconto. La «scoperta» ha avuto bisogno di un gruppo di esuli russi a Parigi, di una copia in russo dell'.Accompagnatrice, passata di mano in mano fino a giungere a una traduttrice dilettante. Da questa a Nyssen che legge (di notte) la traduzione, s'infiam- ma, fa infiammare (sempre di notte) il suo collaboratore Bertrand Py. Càccia alla traduttrice, caccia alla Berberova. Autore ed editore s'incontrano in un caffè di Place Saint-Sulpice, a Parigi. Nina Berberova ricorda ancora di aver preso un caffè. Raccontata dall'autore o - poco cambia - dall'editore, è una delle più felici storie d'innamoramento letterario. L'epidemia Berberova ha già contagiato i lettori di tutta Europa. Gli americani sembrano meno colpiti. Sa il perché? «La ragione è che non mi trovano abbastanza romantica. Così m'hanno detto gli editore di Knopf, la casa che ha recentemente pubblicato il mio primo titolo. Romantica io non lo sono nni: k mai stata e non lo sono nemmeno i miei libri. E loro pensano che una vecchia signora russa lo dovrebbe essere». «I miei genitori erano romantici. Io ho scelto di non esserlo già da piccola. Ma è proprio per questa mia scelta, condivisa dalla mia generazione, che oggi sono letta dai giovani europei. E quante lettere! Penso che gli americani cominceranno a scrivermi dopo aprile, quando Knopf avrà pubblicato anche II corsivo è mio, il libro più importante che ho scrìtto». La vita e il pensiero di Nina Berberova sono talmente sovrapposti lungo un'unica, regolarissima, retta, da permetterle di tornare immediatamente a «casa», nella sua mente bambina a Pietroburgo. Lo fa con quella naturalezza che sembra dire all'interlocutore: perché ti stupisci? «La regola fondamentale della mia vita è sempre stata: non perdere tempo. L'ho capito a tre anni, quando mia madre voleva che suonassi il piano, con un maestro. E io dicevo: lasciatemi stare, non voglio suonare, voglio essere un poeta. E invece: inverno, estate, sempre, ho dovuto perdere un'ora al giorno con quel maestro!». Trascorsa una lunga vita, per Nina Berberova la giornata è ancora una battaglia per non perdere tempo, per mettere or¬ dine negli eventi o nella corrispondenza. A chi chiede ricordi o affetti, lei replica quasi con violenza: «Penso che la gente dovrebbe apprezzarmi, perché il fatto di non voler perdere tempo per mettere a frutto ogni energia, l'evitare ogni sentimentalismo fa di me una persona del XX secolo». (E prende ad elencare, nel suo inglese puntiglioso e corretto, gli eventi di cui è riempita la sua giornata: i rapporti con traduttori ed editori, leggere i libri tradotti alla ricerca di errori, scrivere lettere affettuose agli amici, tenere un diario limitato ai fatti... «Sono busy, busy, capisce?»). Fedele fino in fondo a quanto scritto, ormai una trentina d'anni fa, in 12 corsivo è mio: «Una sola convinzione ha sempre vissuto e vive in me, e cioè che il mio secolo è l'unico per me possibile. (...) Gli orrori e le sciagure del mio secolo mi hanno aiutata: la rivoluzione mi ha liberata, l'esilio mi ha temprata, la guerra mi ha spinta in un'altra dimensione». Nessuna nostalgia, sconosciuti i rimpianti dall'alto di una vita tutta consumata tra esuli «declassati», al fianco di grandi uomini che nel ricordo appaiono più fragili della sua esile corporatura (la debolezza morale di Andrej Belyj; Gor'kij «con una vita lunga, dura e straordinaria Cil r alle spalle» e tuttavia sempre alla ricerca di consensi per i suoi libri; Kerenskij, privo di volontà, grinta e ingegno, ricco solo in testardaggine e disinvoltura); donne e uomini che hanno mangiato lo stesso pezzo di pane nero e bevuto il tè scaldato sulla stufa di fredde sale di lettura della Casa delle Arti di Pie- troburgo o dei circoli per esuli a Berlino o a Parigi. Donne e uomini che si chiamavano Nabokov, Pasternak, Achmatova, Sologub, Cvetaeva. «Per me non c'è nessun ritorno», ha scritto nella sua autobiografia. Non si sofferma sulla fogliolina di carciofo che divideva a Parigi con Chodasevic; sulla povertà patita à Longchène, vicino a Parigi, dove era sfollata con N.V.M., il suo secondo compagno, durante la seconda guerra mondiale. Preferisce tacere i sette lavori intrapresi a New York dopo il 1950 e i dieci franchi guadagnati a Parigi scrivendo mille volte «Oh mon doux Jesus!» su altrettante cartoline natalizie con le stelle di Betlemme. Preferisce ricordare la sco- perla della ricchezza: arrivare a New York e accorgersi che i marciapiedi sono disseminati di cicche di sigarette ancora più che filmabili. La meraviglia quando Princeton offre il doppio di Yale perché lei insegni da loro. Per farla soffrire basta nominare la Russia. La cosa più difficile da mandar giù in tutta la sua vita è stata «la politica russa». E oggi più che mai: «Sono tornata una volta nel 1989, ma penso che non ci metterò più piede. E' tutto tremendo. Non è il Paese che io ho conosciuto. Non ci andrei nemmeno con il passaporto e la cittadinanza americana. D'altra parte là non ci sono nemmeno più scrittori: ci sono soltanto persone che fuggono e vecchi che muoiono. La Russia vera è in me, come l'Italia. Tutto è presente in me», dice solennemente. La Russia assomiglia a un sogno, quello che consumava i compagni di Nina Berberova, senza patria, senza nome, senza professione, attraverso un ventennio d'Europa. E' il sogno inesaudibile di tornare alle origini che visita il protagonista di un suo nuovo, breve, romanzo pubblicato in Italia da Guanda: Roquenval - Cronaca di un castello (traduzione di Gabriele Mazzitelli, pp. 77, L. 16.000). Nella cornice di un decadente e inquietante castello della campagna francese (Ile-de-France), l'adolescente Boris vive la tragedia comune dell'esule, la ricerca di una qualche corrispondenza tra il presente e il passato lontano e perduto. Un ponte immaginario che nel caso del giovane russo emigrato in Francia è costituito dalla vecchia signora, anch'essa russa, proprietaria del castello dove Boris è invitato a passare l'estate da un suo compagno di scuola e nipote della signora Praskov'ja Dmitrievna. A Nina Berberova basta un viale di vecchi tigli «mostruosi» per mostrare tutti i gradi dello spaesamento, dall'ansia della perdita, fino alla gioia momentanea del ritrovamento. Di questo breve e completo romanzo pubblicato nel 1936, Nina Berberova dice ora con nonchalance: «Ogni venerdì portavo una storia come questa per il supplemento domenicale del giornale russo al quale collaboravo». Lascia interdetti, mette a posto l'anello luccicante di rosso (unica indulgenza, commessa a Firenze, dove, invece di comperare l'orologio che le serviva, preferì l'anello che divideva la stessa vetrina del gioielliere), dirige gli occhi fieri e avviliti verso il fotografo. Chiede: «Mi dica, come sono i capelli? Pensi che fino a sei mesi fa erano ancora castani. Poi ho pensato che andare così spesso dal parrucchiere era un po' troppo...». Michele Neri Parla la scrittrice che ha compiuto 90 anni: una vita in esilio tra Parigi e New York I ricordidiGorkij CvetaevaeNabokov Ora esce in Italia il romanzo «Roquenval » Nina Berberova ritratta con una foto del 1923 in cui compare accanto a Beli)', Chodasevic, Muratov e altri scrittori russi. Foto Brad Treni/Grazia Neri