Ma i capitali italiani non temono i mullah di Tito Sansa

Ma i capitali italiani non temono i mullah Ma i capitali italiani non temono i mullah In arrivo 8 mila miliardi di crediti, contro i mille della Francia ALGERI. La minaccia dell'integralismo islamico in Algeria non ha fatto molta paura agli ambienti economici occidentali, neppure nei momenti più critici, nel giugno dell'anno scorso, quando violenti scontri insanguinarono il Paese, e intorno a Capodanno, quando il Fronte islamico di salvezza (Fis) sembrava dovesse prendere il potere con le elezioni. A differenza dei politici e dai media europei e americani, finanzieri e industriali sono rimasti imperturbati e hanno per la maggior parte continuato i loro programmi di credito e di investimento nell'Algeria su cui incombeva il rischio della guerra civile. In primo luogo l'Italia - questo nostro Paese verso il quale siamo spesso critici - ha teso la mano ad Algeri. «Lo ha fatto nel momento opportuno, quello dei nostri maggiori problemi e del maggior rischio» dice il ministro degli Esteri Lakhdar Brahimi. Abdenour Kashi, diretto- re centrale delle relazioni internazionali del Crédit Populaire d'Algerie, aggiunge: «Gli italiani, governo, banche, industrie, privati, hanno nuotato contro corrente, dandoci una mano quando altri la ritiravano. Roma ha capito che l'avanzata degli integralisti nel Maghreb (in Algeria, Tunisia e Marocco) si blocca risollevando l'economia algerina, la chiave di volta della regione». Le cifre parlano da sole. L'Italia è il primo Paese importatore di prodotti algerini, il secondo esportatore verso l'Algeria, dopo la Francia, e tra qualche mese - secondo quanto prevede l'ambasciatore Antonio Badini, il diplomatico straniero al momento più popolare quaggiù - sarà anche il primo investitore. Nel giugno scorso, cioè proprio nei giorni bollenti in cui si sparava per le strade di Algeri, l'Italia ha concesso un credito di 7,2 miliardi di dollari (qualcosa come 8300 miliardi di lire), mentre la Francia titu- bante si limitava a circa 1000 miliardi di lire seguita dal Belgio con un centinaio di miliardi. Anche all'interno della Comunità europea, che ha deciso di finanziare la ripresa algerina con 400 milioni di ecu (circa 600 miliardi di lire), l'atteggiamento di Roma e di Bruxelles è stato più coraggioso di quello degli altri dieci membri della Comunità. Mentre il Parlamento europeo esprimeva le proprie riserve (si era al 15 gennaio, quattro giorni dopo il «golpe bianco» di Algeri e il futuro era quanto mai oscuro) e i governi francese e britannico ripetevano le proprie riserve, condizionando il credito alla restaurazione della democrazia, italiani e belgi facevano sapere che le relazioni continuavano normalmente e che gli accordi presi non sarebbero stati messi in discussione. L'Algeria dunque, primo Paese non membro della Cee, riceverà un credito comunitario, che è sta- to negato a Siria e Marocco. Fiducia nell'Algeria dunque. Il governo di Ghozali ripete che il problema principe del Paese è economico, che bisogna riassorbire quel milione e mezzo di disoccupati, gli «hittistes», che passano le giornate appoggiati ai muri, più sensibili ai canti delle sirene del Fis nelle moschee del venerdì. I programmi di «integrazione economica» tra Italia e Algeria non vengono toccati, anzi intensificati. Il gasdotto algerino che da Capo Bon in Tunisia, porta metano a Mazara del Vallo, in Sicilia (12 miliardi di metri cubi l'anno) verrà raddoppiato, alla fine del '94 i «cordoni ombelicali» che legano i due Paesi saranno due. La Breda produrrà vagoni ferroviari, la Fiat sta costruendo a Tiaret, nell'entroterra occidentale, una fabbrica di automobili dalla quale alla fine del '94 usciranno 30 mila vetture «Uno» l'anno, con la possibilità di portare la produzione a 100 mila pezzi. «Diversamente dai francesi della Peugeot e della Renault e dei giapponesi della Honda e della Nissan - dice Abdul Aziz, giornalista economico - i quali mirano a espandere la loro rete di concessionari (ma una nuova legge vuole anche l'impegno industriale), gli italiani rendono noi algerini partecipi nelle società miste e ci danno lavoro». L'ambasciatore Badini riassume: «Un Maghreb debole non interessa a nessuno. Se vogliamo che diventi un partner forte, bisogna che diventi esportatore di beni. La nostra è una scelta precisa». E le incertezze politiche? La minaccia dei fondamentalisti islamici? «Stiamo raddrizzando la barca - dice il banchiere Kashi -. Bisogna dare lavoro anzitutto ai barbieri». Allude alle operazioni di rasatura dei «barbus», del Fis, quelli che «vorrebbero riportarci nel Medioevo». Tito Sansa

Persone citate: Abdul Aziz, Antonio Badini, Badini, Francia Algeri, Lakhdar Brahimi