Corsa all'oro odor di zolfo di Carlo Carena

Corsa all'oro odor di zolfo L'avventura degli alchimisti Corsa all'oro odor di zolfo JN una delle rappresentazioni più dettagliate di un'officina alchemica, un'incisione tardocinquecentesca di Philippe Galle, si scorge da sinistra a destra: il maestro seduto in poltrona che compulsa un grosso manuale; una bilancia, una storta fumante, ampolle varie; al centro l'atanor, il fornello anch'esso fumante attorniato da tre adepti anziani e da un garzone che soffia sulle fiamme; un altro garzone che pesta in un mortaio; una stufa per la distillazione e un apparecchio per il bagnomaria; un torchio; due camini sul fondo, dove appare all'opera anche una donna; un quadro alla parete sembra ritrarre il maestro con la moglie a un tavolo coperto di pentolame. In quell'antro affumicato e affastellato è di scena una delle storie più straordinarie, si coltiva e si consuma un sogno iniziato in Cina e in Grecia più di duemila anni fa e non ancora spento, se è vero che esistono tuttora a Parigi uri Ecole hermétìque e una Société Alchimique de Frutice. Se è vero, anzi, che il più grande degli alchimisti medievali, Nicolas Flamel, è ancora vivo, sebbene si sia scoperto nell'Ottocento il suo sepolcro e la sua pietra tombale sia conservata al Musée de Cluny di Parigi (fu visto l'ultima volta alla fine del Settecento in Anatolia da un derviscio); e il mitico Fulcanelli, l'autore del Mistero delle cattedrali (1926), non si sa se sia vissuto nella Belle Epoque o nel secolo dei Lumi, o se abbia capeggiato una formazione partigiana contro i tedeschi nel Sud della Francia durante l'ultima guerra. La leggenda, il riso e la caricatura sono parte inevitabile del mistero dell'alchimia; nondimeno il suo pedigree annovera forse già Salomone, certamente Ruggero Bacone e Alberto Magno, papa Silvestro II e Raimondo Lullo, ancora Isacco Newton. Serge Hutin, che c'informa sulla Vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo (Biblioteca Universale Rizzoli), spiega tutto questo molto sobriamente. La ricerca alchemica della pietra filosofale, capace di trasformare i metalli vili in oro e la breve, malsana vita umana in una lunga degenza sulla Terra, rientrava in un'ascesi spirituale, in un tentativo di perfezionamento della materia per riportarla alla purezza del momento della creazione, prima dell'infausto peccato di Adamo. Né chimico né mago Accanto o all'interno stesso del laboratorio l'alchimista aveva un oratorio per pregare; cóme l'oro è la perfezione dei metalli e contiene i germi della perfezione altrove perduta, così la pratica estenuante dell'alchimia sublima l'adepto e lo porta alla riconquista dello stato di grazia. A differenza del mago l'alchimista non vuol far minimamente violenza alla natura e rovesciare le leggi di Dio; anzi, vuol riprodurre nell'alambicco ciò che accadde all'inizio del ciclo terrestre, quando la materia fu organizzata dalla Luce divina, per recuperarlo. Già Zosimo di Panopoli, il primo alchimista accertato du rante il III secolo dopo Cristo, mescolò nei suoi trattati alle ri cette tecniche una speculazione filosofica intensa, con vertigino si trapassi fra simboli e metafo re, necessari per affrontare l'o scuro e l'ineffabile. Ma alcune norme sono di una chiarezza e altezza sublimi: «Lascia che la fatalità tratti a suo modo il fango che le appartiene, il corpo; tu riposa, acqueta le passioni e ret tifica te stesso, chiama a te la divinità». Perciò all'alchimista non interessò nemmeno quantificare, matematizzare i suoi esperimenti, studiarne e utilizzarne gli effetti anziché le cause; per questo la sua non è una scienza e solo vagamente è madre della chimica. Scompone la materia per scoprire quanto vi è imprigionato, i vapori, gli spiriti vitali; per sublimarla, e intanto sublimare se stesso. Jung affermò che il fascino a cui soggiace l'alchimista è sì quello delle trasformazioni chimiche della realtà, ma ancor più quello delle trasformazioni psichiche, le metamorfosi sottili che durante la lunga esperienza si verificano nella sua intelligenza e nella sua coscienza. Le congiunzioni carnali e gli androgini di cui sono pieni i suoi testi e le raffigurazioni arcane che toccano Bosch e van Eyck, si applicano non meno alle nozze interiori con cui il ricercatore deve accordare e unificare gli elementi sparsi della propria anima. Dalle tenebre alla luce Poco importa se occorre tutta una vita per attraversare queste tenebre e sboccare, forse, nella luce - fondere tutti i metalli e ottenere, forse, l'oro (vi riuscì solo Flamel). L'alchimista è un morto per gli altri uomini, ma nel suo antro lo percorre una febbre assillante che in alcuni enunciati richiama Xinquietimi est cor nostrum di Agostino. Alberto Magno lo ritrae in una casupola isolata, con due o tre stanze tutte dedicate alle sublimazioni e alle distillazioni; silenzioso e discreto per non screditare agli occhi dei rozzi profani la sua scienza codificata in testi esoterici di antichità immemorabile, egizi, greci, arabi, o esporla all'abuso di uomini senza scrupoli; perseverante nelle veglie davanti al fornello sempre in attesa della rivelazione finale: «Come un sogno che t'illude con vane visioni - scriveva già un greco antico per i suoi colleghi -, finché il tempo che regola la corsa della tua vita non è trascorso e il trapasso che, purtroppo, tutto governa nell'ombra, ti riceve senza alcuna promessa di risultati». Questo non è, come si vede, un ciarlatano o uno stupido; forse un artista ma non un uomo fallito. Solo l'avventuriero può essere preso dal rimpianto e dal rancore. Così Cornelio Agrippa, nella cui vita «si accumularono le avventure non meno che le ipotesi nella sua testa», viaggiatore di mezza Europa, medico, avvocato, teologo eretico, storiografo ufficiale di Carlo V. Dopo lunga pratica alchemica sprofonda nello scetticismo assoluto e in un'ira malsana; nella sua opera sulla Incertezza e vanità delle scienze capovolge la laboriosa scena dell'incisione di Galle, il quieto e paziente ritratto di Alberto Magno, in una rancorosa invettiva: «Ecco qui come vi ritrovate, vecchi, carichi di anni, coperti di cenci, affamati, con un perpetuo odor di zolfo addosso, paralitici per aver troppo manipolato l'argento vivo, e così infelici che volentieri vendereste la vostra vita e persino la vostra anima». Nessun alchimista autentico si sarebbe spaventato di questa sorte, assolutamente preventivata, ma avrebbe continuato imperterrito la sua corsa all'oro come un ricercatore dell'Alaska, e alla leggerezza dell'essere come un eremita del deserto; non con i nostri drammi confusi ma anzi, come dice Artaud, «con il suo rigore intellettuale». Carlo Carena

Luoghi citati: Alaska, Anatolia, Cina, Europa, Francia, Grecia, Parigi