36 testimoni per Gobetti mio padre

36 testimoni per GOBETTI mio padre Intervista con il figlio, mentre esce «Racconto interrotto» 36 testimoni per GOBETTI mio padre 1 se I Udì TORINO IA Fabro 6. Tutto è ancora qui, tutto è ancora presente. Piero Gobetti uscì di casa (l'appartamento ora sede del Centro Studi a lui intitolato) il 3 febbraio 1926. Sulla «botte di vetro traballante nella neve» raggiunse la stazione di Porta Nuova, dove attendeva il treno dell'esilio, diretto a Parigi. Neanche due settimane dopo, intorno alla mezzanotte di lunedi 15, il commiato. Ma per gli amici, che non lo videro morire, lo scarruffato direttore di La Rivoluzione liberale era solo partito, «lasciandoci - come avvertì Augusto Monti - un tesoro di pensieri, di norme, uno "statuto", che a noi toccava serbar intatto finché lui non fosse tornato». Fra i custodi ostinati del «tesoro», il figlio di Piero, Paolo. Da sempre insegue il padre. Sin dall'età di sette anni - risale al '33 la prima visita al cimitero Pére Lachaise dove Gobetti è sepolto - è impegnato a comporne il ritratto attingendo ai ricordi di chi lo conobbe. Mercoledì sarà proiettato a Torino il video che ha realizzato con Claudio Cormio: Racconto interrotto. Trentasei voci (da Ada, la moglie di Gobetti, a Luigi Salvatorelli, da Sapegno a Carlo Levi). Le introdurrà Norberto Bobbio, il «maggiore» dell'ftalia fedele alla torinese «anima di fuoco». Una figura di perenne attualità, Gobetti, perché - come ha osservato il filosofo - «è proprio di un atteggiamento profetico il non poter essere commisurato alla stregua dei problemi politici del momento». Paolo Gobetti nacque il 28 dicembre 1925. Aveva cinquanta giorni quando il padre si spense nella clinica di rue Piccinni. «La tragedia, tanto ero piccolo, non mi toccò. O quasi. Mia madre, infatti, rimase improvvisamente senza latte. Forse il venir meno del suo nutrimento fu responsabile dell'anoressia che mi perseguitò a lungo. Solo la carestia del tempo di guerra la guarì». Altre «ombre» non angustiarono Paolo Gobetti. «Grazie a mia madre ho evitato le trappole deamicisiane: orfanello e figlio del martire sono stereotipi che ignoro». Nessuna apologia, nessuna concessione alla retorica (non a caso Piero Gobetti dedicò «a mio figlio Paolo» - quasi un monito a futura memoria - Risorgimento senza eroi, uscito postumo). «In Francia andai nuovamente nel '35 e nel '37, felice di calarmi nell'aura di libertà che aveva attirato Piero (lo chiama per nome, come un fratello, ndr). Tornai alla sua "arida" tomba (aridezza è un vocabolo gobettiano per eccellenza, sinonimo di misura, serenità, rigore). Mi recai a trovare Nitti. E Carlo Rosselli. Lui e il fratello Nello, assassinati di lì a poco, riposarono a lungo accanto a mio padre. Le loro salme vennero quindi traslate a Firenze. Noi abbiamo deciso diversamente: se Piero Gobetti non è morto in Italia un motivo c'è, teniamolo desto». E giunse l'adolescenza, i 15, 16 anni. Paolo approfondì la breve esistenza del padre continuando a frequentarne gli amici («Tra i nostri ospiti: Augusto Monti, Manlio Brosio, Benedetto Croce») e studiandone gli scritti. «Una formazione che mi proiettò naturalmente nella Resistenza (Guglielmo Alberti definì Piero Gobetti il "Resistente n. 1", ndr). Combattei nelle file di "Giustizia e Libertà", accanto a Dante Livio Bianco, Giorgio Agosti, Franco venturi». Poi «Aldo disse ventisei per uno», arrivò il 25 Aprile, la Liberazione. «E a poco a poco - s'immalinconisce Paolo Gobetti - le illusioni tramontarono. Capii che il mondo sognato sulle montagne in città non sarebbe nato. Le residue speranze sfumarono con la scomparsa del Partito d'Azione: ne avevo seguito l'intera parabola pur non chiedendone la tessera». Sciolta la forza politica gobettiana, che fare? «Aderii al partito comunista, suscitando lo sdegno di Croce. Il senatore mise invano mia madre e me in guardia: "Voi non conoscete Togliatti, il delinquente che è: ucciderebbe anche sua madre in nome della ragion di partito". Il tribunale della storia gli avrebbe dato ragione, ma allora ci sfuggiva la realtà stalinista (o ne coglievamo pallidi echi). E comunque: avvertivamo la sponda comunista come inevitabile, tanto erano sordi gli altri ambienti». Nel '48 Paolo Gobetti esordì come critico cinematografico sulle pagine torinesi dell'Unità («Conservo un ricordo alto di Calvino, incontrato nelle stanze redazionali»). Di recensione in recensione maturò il desiderio di passare dietro la macchina da presa, si «scoprì» regista civile (due documentari in particolare: Scioperi a Torino, girato con la moglie Carla, cardine del Centro «Gobetti», e Le prime bande), inventò con Franco Antonicelli (1966) l'Archivio nazionale cinematografico della Resistenza. Al terzo piano di via Fabro, sede dell'Archivio di cui è presidente, Paolo Gobetti riecheggia gli operai gobettiani che Mario Soldati ammirò «in un bar-caffèristorante oltre Dora», Anni Cinquanta e dintorni. Eguale costume civile. Identica, elegante noncuranza nel vestire. Medesima, radicata consapevolezza del dovere identificato nel Baretti, numero inaugurale: «Salvare la dignità prima che la genialità». La fronte ampia («La fronte che è come la tua», annunciò la madre a Piero), le sopracciglia dense, gli occhi rapidi, le orecchie minute come schegge. Paolo Gobetti appare e scompare fra le troppe carte, le bobine, gli appunti, i telecomandi, i libri. Non nasconde l'ansia: per i finanziamenti non ancora elargiti da Comune, Provincia e Regione («Il video Racconto interrotto è l'esito di mille salti mortali»); per l'accoglienza che verrà riservata al «film» («I nomi dei testimoni compaiono in coda, qualcuno avrà magari da ridire»); per gli inviti «che la tipografìa ha consegnato con dieci ore di ritardo». Il suo sfogo, intrecciato con il bisogno di fare che lo assilla, rinvia a un appunto paterno: «...preparati gli annunci editoriali per U libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni...». Si spengono le luci, Paolo Gobetti accantona il malumore, a imporsi è Racconto interrotto (lo stesso titolo di un frammento autobiografico compreso nell'introvabile volumetto L'editore ideale, Scheiwiller). Via via si affacciano sullo schermo i volti dell'Italia gobettiana. Augusto Monti, intervistato nella vigna Allason (il «ciak» d'avvio, 1962): «Un prodigioso giovane». Giuseppe Prezzolini, che in contrapposizione a Gobetti (schierato per la «Compagnia della morte») sosteneva la Società degli Apoti (coloro che non la bevono): «Però ci accomunava il desiderio di una democrazia fondata più sul dovere che sul potere». Umberto Morra, morto nell'81, lasciando incompiuta la biografìa del «maestro». Lydia Campolonghi, musicista: «Non ricordo se suonassi Bach il giorno in cui ci furono i funerali grandiosi di Gobetti, perché furono grandiosi per la partecipazione francese». Carlo Levi: «Un ragazzo come me, alto, con i capelli ricciuti sulla fronte, occhi pieni di un'energia straordinaria». Natalino Sapegno: «Ci i incontrammo a un concorso. Dopo un quarto d'ora uscimmo, avendo tradotto il brano di greco senza guardare una parola sul vocabolario». E Andrea Viglongo, Sandro Pertini, Bauer, Pani, Montale, Emery... «Poussin è sempre cattivo e triste?». Poussin è il vezzeggiativo coniato da Gobetti per il figlio. Paolo scorre la lettera inviata dal padre alla madre il 4 febbraio 1926, appena giunto a Parigi. Cattivo chissà. Ma un poco triste lo è, un sentimento che la penombra aiuta a mascherare. Forse rammenta le parole che Piero scrisse mentre lui veniva al mondo, un passo del saggio su Gogol: «Questo bisogno di ideale non gli lasciò pace, lo trascinò alla tomba». La stessa urgenza «condannò» Piero Gobetti. La sua tomba è ancora là, al Pére Lachaise. Essenziale, esatta come una verità: «Mon langage n'était pas celui d'un esclave». Brano Quaranta A CraaritudScc A fianco, Paolo Gobetti. Sopra, Benedetto Croce. In alto, Giuseppe Prezzolini «Lui riposa ancora là, al Pére Lachaise: se non è morto in Italia un motivo c'è, teniamolo desto»

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