Il Frate beffato di Canterbury

Il Frate beffato di Canterbury Chaucer tradotto in versi Il Frate beffato di Canterbury ! EOFFREY Chaucer compose i Racconti di Canterbury intorno al 1387. Modellata sul Decameron, dal quale trasse anche numerosi spunti, l'opera presenta una serie di racconti affidati a vari narratori: ma a differenza della raccolta italiana, qui i pezzi sono quasi tutti in versi e non in prosa, e risentono fortemente della personalità di chi li propone. Boccaccio aveva riunito una brigata di pari grado, giovani aristocratici arroccati in una villa per sfuggire alla peste. Nel suo splendido prologo, Chaucer evoca invece un vero campionario della società del suo tempo, con l'espediente di riunire in una locanda ventinove personaggi (per strada diventeranno trentuno) in procinto di iniziare un pellegrinaggio sulla tomba di san Tommaso Becket, la vittima del celebre assassinio nella cattedrale. Costoro sono esponenti di varie età e mestieri, alcuni dei quali, come quello del venditore di indulgenze, non più praticati ai nostri giorni. Ci sono un Cavaliere, uno Scudiero, un Mugnaio, uno Studente, un Mercante, una Comare, un Medico ecc., compresi vari ecclesiastici (Preti, Monaco, Frate, Parroco, Priora). All'inizio l'oste propone che durante il viaggio ciascuno racconti quattro storie, due all'andata e due al ritorno, e che chi avrà raccontato la migliore venga premiato con una buona cena. Dovremmo così finire con più di 120 racconti; ma proprio come succede in certi convegni, i primi a prendere la parola sono così prolissi da rendere praticamente impossibile il mantenimento del progetto iniziale. Quando dopo circa 17.000 versi (soprattutto distici rimati) l'autore getta la spugna, ha scritto soltanto 23 narrazioni, sotto varie identità compresa la propria: Chaucer stesso fa infatti parte della spedizione, e molto spiritosamente si mette in bocca due pezzi parodistici, uno in poesia e uno in prosa, così noiosi da essere interrotti a furor di ascoltatori. Agli inizi dell'inglese Quanto abbiamo è comunque monumentale, anzi è il monumento della lingua inglese ancora nella sua infanzia: da poco era stata adottata al posto del francese, negli atti ufficiali. Quasi privo di punti di riferimento, Chaucer dovette adattarsela, emulando Dante, che conosceva e ammirava (e che cita due volte nel poema): ma collocandosi all'inizio di una evoluzione durante la quale si verificarono modifiche profonde, sarebbe parso arcaico già all'età di Shakespeare, quando la pronuncia era così cambiata da far sembrare la metrica dei Tales zoppicante o peggio. Oggi il capolavoro è per ogni inglese di cultura media ostico alla lettura, ma soprattutto impossibile all'ascolto, ed è un gran peccato, in quanto l'opera fu certo concepita per essere detta a alta voce, quasi cantata. Si tratta comunque di un libro indispensabile, non tanto per le storie che racconta, quasi tutte derivative, ma per il ricco mondo evocato dall'insieme di queste e dei ritratti di chi le narra. Talvolta a dispetto: il Mugnaio dice di un falegname cornuto, e a sua volta il Fattore, che è stato fale gname e vuole vendicare la cate goria, prende da Boccaccio la storia dei due studenti che derubati da un mugnaio si vendicano seducendogli moglie e figlia; il Frate racconta di un apparitore (ufficiale di tribunale ecclesiasti co) mandato dal diavolo all'inferno, e subito l'Apparitore narra di un avido frate beffato da un morente di cui aspira all'eredità. Non tutti i racconti sono in questa chiave allegra, ci sono storie tristi come quella della paziente Griselda (già nel Decameron e tradotta in latino dal Petrarca), che sopporta senza batter ciglio le inaudite vessazioni di un marito che vuol metterla alla prova; o sinistre, come quella dei tre bestemmiatori cui Morte fa trovare un bottino che li spinge a uccidersi l'un l'altro. 11 momento più alto è forse nel monologo della Comare di Bath, antenata della Nutrice di Giulietta, che prima di narrare una storia per la verità un po' melensa si dilunga in una appassionata condanna dello stato nubile descrivendo i cinque matrimoni per i quali è passata e di cui apprezza nel ricordo tutto, perfino un ceffone ricevuto che la lasciò sorda da un orecchio. E' la vita che afferma i suoi diritti, in barba al conclamato ascetismo medievale. La ragione di questa lezioncina di letteratura inglese è la comparsa di un originale, notevolissimo tentativo di porgere i Tales, tanto celebri in teoria quanto poco noti nella pratica, anche ai lettori italiani, applicando il criterio empirico con cui Matthew Arnold propose di definire il fine del buon traduttore: riprodurre un effetto il più vicino possibile a quello che l'originale aveva sul pubblico per cui fu concepito. «Di un cavallo par lo strombazzare» Ecco dunque che con una costanza vicina all'ostinazione Vincenzo La Gioia ha tradotto tutto il pesante volume in versi, e in versi analoghi a quelli di Chaucer, distici rimati o stanze più complesse (come la cosiddetta «rhyme royal») quando era il caso, ponendosi sempre l'obbiettivo della scorrevolezza, della facilità, e senza perdere di vista l'umorismo di tanti passi. Il solo fatto che sia arrivato fino in fondo rende immensamente meritoria la sua opera, e anche lo sforzo dell'editore Leonardo, che le ha dato degna veste in un bel volume di 1080 pagine con ottimo testo a fronte. Voghamo incoraggiare le versioni poetiche, ora che abbiamo disponibili tante buone versioni in prosa dei classici inglesi, e che almeno i rudimenti di quella lingua sono condivisi da tanti lettori? Certo è difficile pensare che si annidi in mezzo a noi chi possa rendere un equivalente della pregnanza di uno Shakespeare, anche se per esempio Mario Luzi ha dato un magnifico Riccardo 11 - il re, fra parentesi, sotto cui furono scritti i Tales. Ma quando i versi sono giocosi, festosi, senza pretese, come quelli di Chaucer, il gioco di orecchiarli sia pure in una lingua di oggi è piacevole, né sono le inevitabili cadute e i compromessi a guastarlo. Farò un solo esempio, e tendenzioso perché tratto dal Chaucer diciamo così ribaldo, aspetto a cui sarebbe ingiusto limitarlo. Il moribondo di cui sopra invita il frate a prendersi la sua eredità. «Dice Tommaso: "Quella cosa tengo / dietro la schiena, fruga bene in fondo / e dove il dorso già si fa rotondo / là troverai quello che ho nascosto". /11 frate pensa: "Ora sono a posto!" / e si dirige a quei recessi anali / sicuro di trovarvi dei regali (And doun his hand he launcheth to che clifte / In hope for to fynde there a yifte). / Ma quel malato, quando sente il frate / che annaspa con le dita infervorate, / un vento nella mano lascia andare / che di un cavallo par lo strombazzare / aitar che tira il carro e fa trombone./ II frate salta su come un leone...». Viene voglia di sentire il resto; ed è questo che conta. Ma solino d'Amico

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