NON NAVIGA IL GALEONE DI MARI di Lorenzo Mondo

NON NAVIGA IL GALEONE DI MARI NON NAVIGA IL GALEONE DI MARI «La stiva e l'abisso», un dramma surreale UN galeone spagnolo impantanato dalla bonaccia nell'oceano, un capitano immobilizzato dalla cancrena che gli divora una gamba... Il romanzo di Michele Mari intitolato La stiva e l'abisso sembra riproporci ad apertura di pagina certe suggestioni conradiane: la sconfitta che viene a piegare una vita ardimentosa per una falla di ordine morale; una visionarietà che nasce quasi a contraggenio dalla ricerca accanita e mai persuasa del «mot juste». Immagini «gotiche» In Mari però non c'è nulla di tutto questo. La sua immaginazione che tende al nero, nel senso accreditato dalla tradizione «gotica» e più indietro barocca, ha bisogno di esprimersi con un linguaggio turgido dove tono alto e basso convivono in una intonazione prevalentemente libresca. Non c'è avventura, sia pure costretta a ristagnare nell'introspezione, non c'è una lenta approssimazione al simbolo, ma l'imposizione immediata di figure surreali che chiedono la ricerca di un significato. E' la semplice constatazione, beninteso, che ci troviamo di fronte a un organismo, a una strategia diversa. Il capitano Torquemada è un uomo colto, nella forzata immobilità rimpiange di non possedere almeno un Cervantes che gli tenga compagnia. Dalla sua cabina intrattiene rapporti con il capitano in seconda, Menzio, un essere istintivo e brutale che sogna di prendere presto il comando della nave. Riceve ogni .tanto la visita di alcuni marinai, sta attento ai rumori della stiva e della coperta. A bordo sta accadendo qualcosa di strano e prima di lui il lettore ne afferragli indizi attraverso i dialoghi stralunati dell'equipaggio che funge da coro. Non c'è gioco o rissa, non c'è più lavoro sul galeone fermo. I marinai si consumano nell'inedia, passano il tempo a sussurrarsi storie di viaggi, di guerre, di amori, di inesprimibili felicità. Sono storie imparate di notte, tra il sonno e la veglia, da creature marine che balzano sul ponte, si infilano nelle cuccette, intrattengono amorosi commerci con gli uomini. Sono, anche, canzoni malinconiche cantate in una lingua sconosciuta. Qualcuno che si sente escluso dal privilegio si toglie la vita; qualcuno che non sa resistere all'attesa di un nuovo incontro si tuffa in mare o si inabissa con una rudimentale batisfera. Anche il capitano è visitato da un pesce iridescente, un grande pesce ferito come lui, ma non riuscirà a strappargli il suo segreto. Deve accontentarsi di ascoltare storie riflesse, di sentirsi attraversare la mente da vocaboli rari e figure retoriche come conviene alla sua cultura sopraffina. L'illusione del tesoro Soltanto il Secondo resiste alla malia, è convinto anzi che tutti cospirino contro di lui, che gli nascondano l'esistenza di un tesoro: per impossessarsene, non esita a uccidere chi ostacola la sua furia. Torquemada medita e vaneggia su questa nave dove all'improvviso si parla gaelico, si scrivono poesie e trattati di ittiologia fantastica, e la feccia di tutti i porti del mondo scopre la delizia e il tormento della vita interiore. Ma perché i pesci lasciano la purezza e l'energia dell'oceano per salire sul galeone, il punto dove si compendiano i morbi e le corruzioni della terra? E' curiosità, protervia, oppure carità? «L'orbita cava dell'occhio sinistro di Omero - esala il capitano davanti all'inconsapevole Secondo - fu culla all'Iliade, quella del destro lo fu all'Odissea, accadde nella sua fanciullezza, distratto da una libellula cadde dalla barca e l'Egeo chiamò tutti i suoi pesci a rodergli gli occhi, quando riemerse straziato quel fanciullo era il Vate, non si cade impunemente nell'acqua tinta del sangue d'eroi, ma tutte le acque sono piene di storie, forse mi sto liquefacendo per questo...». E ancora, «ogni parola che crea combatte il male della Creazione», continua il capitano morente, lasciandosi scivolare nel mare dell'essere: a confondersi con il seme di àl- tre innumerevoli storie, nella sola redenzione possibile che sembra consistere nel «panta rei» della fabulazione. Bastano questi appunti di lettura a mostrare l'impegno di Mari, la sua forte ambizione. Ma, pur avendo apprezzato vivamente i suoi libri precedenti (Di bestia in bestia, Io venia pien d'angoscia a rimirarti), questa volta confesso la mia perplessità. Brillanti diavolerie Trovo inadeguato il linguaggio con tutte le sue brillanti diavolerie, cominciando dal parlar forbito dei marinai che scende talvolta ai riboboli toscaneggiami. Non mi persuadono quei pesci volanti, non riesco a credere alla «terribilità» dell'evento. Ma contesto più in generale l'oscurità con cui sembra contendere, vanamente, la lentezza del romanzo. Come se anche sulla pagina fosse calata la gran bonaccia che infiacchisce le vele del galeone fantasma. Lorenzo Mondo Michele Mari La stiva e l'abisso Bompiani pp. 280, L. 29.000 Un nuovo romanzo di Michele. Mari, l'autore di «lo venia pìen d'angoscia a rimirar ti»

Persone citate: Cervantes, Menzio, Michele Mari