Bronx il sogno ricomincia a teatro

Bronx, il sogno ricomincia a teatro Uno spettacolo in onore di Luther King lancia un nuovo autore e commuove Bronx, il sogno ricomincia a teatro Neri e italo-americani insieme controcorrente PNEW YORK RENDIAMO una settimana «tipica» di New York, per esempio quella I fra il 12 e il 19 gennaio, che è il giorno del compleanno di Martin Luther King, una festa che induce a qualche riflessione sullo stato delle cose. Lunedì una ragazzina bianca di quindici anni è stata sequestrata da due uomini neri mentre andava a scuola e - come nelle vicende immaginarie della letteratura razzista - è stata stuprata. Martedì un bambino di undici anni, sempre sulla strada della scuola, è stato vittima di violenza. Lo ha catturato un giovane, pregiudicato per una lunga serie di simili reati. Mercoledì è comparsa nelle strade di New York una «gang» fino ad ora sconosciuta, quella degli «Alhanians bad boys». La banda di giovanissimi immigrati albanesi, tutti intorno ai allindici anni, ha debuttato sulla scena criminale della città procurandosi come vittima un bambino nero di dodici anni. Lo hanno dipinto di bianco con una crema per le scarpe, dopo averlo picchiato <(per insegnargli a stare al suo posto». Giovedì una gang di ragazzi neri dello stesso quartiere ha restituito l'offesa, anche se il ragazzo che gli è restato fra le mani non era albanese, ma dal nome italiano. Venerdì la polizia ha trovato sul bordo di una strada di periferia alcune fotografie di una bambina di cinque o sei armi. Quelle immagini sono servite finalmente a identificare il piccolo corpo senza vita trovato lo scorso giugno in una scatola in mezzo alla spazzatura. Sabato ci sono state marce e preghiere nelle chiese ((per la salvezza dei nostri figli». Domenica, in una sala del piccolo «museo del Bronx», Marco Greco ha presentato e interpretato il suo dramma in un atto in onore di Martin Luther King di fronte a una folla tutta di neri, tranne il padre e la sorella dell'attore-autore. Nella terra di nessuno Chi è Marco Greco? E come riesce a fare una cosa simile alla fine della peggiore settimana nella storia della città? Come ha potuto richiamare l'attenzione di tante famiglie nere nel quartiere più diviso della città? Come ha imparato, nelle strade del Bronx, a cercare di trovare la propria identità negli occhi degli altri? Nel suo atto unico sono protagonisti un vecchio nero, ex pugile, e un giovane italiano aspirante attore. E' un dialogo fitto, spiritoso, bruciante, rapidissimo, allegro, triste, pieno di vita e di rischio. Il nero, che è più anziano e più saggio, lo induce a rivelare tutti i modi, anche i più volgari, con cui i bianchi (in questo caso gli italiani-americani) definiscono i neri. Tutto è talmente assurdo, nella terra di nessuno del loro impossibile incontro, che il nero e il bianco si divertono insieme. «Davvero dite questo di noi? Questa proprio non l'avevo mai sentita, deve essere nuova...». A mano a mano che il dialogo si fa più intenso e più fitto, il nero guida il gioco. E spinge il giovane a guardare se stesso. Chi è un italiano americano? Ecco l'accento, ecco i gesti, ecco il gergo, ecco l'intonazione di voce e i saltelli e i movimenti delle braccia, come nei film, come nelle vignette umoristiche. Il giovane è bravo a «imitare». Ma sta imitando se stesso. Sta imitando il cliché che gli altri vedono in lui. Abbassa la guardia, confida al vecchio pugile: «Troverei lavoro, mi scritturerebbero subito...». Il nero vuole sapere: «E qual è il problema?». Il problema è che vogliono fargli fare, come ruolo fisso, l'italiano americano, che si vede in televisione, qualcuno che parla con le mani, che ha l'accento di tutti i film di gangster, la nobiltà un po' ridicola di tutti i «goodfellas», uno che invoca ogni due frasi la Madonna e i santi di qualche villaggio del Sud italiano che non ha mai conosciuto. E allora comincia la parte del dialogo che nessuno, in questa città di maschere, di confini, di cliché e di linee invisibili e implacabili di divisione, si sarebbe aspettato. «Nuotare contro corrente, ragazzo, ecco cosa devi fa- re. Molti di noi lo fanno. Nuotare contro corrente», ammonisce il nero. Ovvero rompere il cliché, abbattere il «modello», fuggire dal ruolo che gli altri ti vogliono per forza assegnare. Devo confessare che la «performance» di Marco Greco mi ha colto di sorpresa. E' come se la parte più conflittuale di New York, dopo la settimana che ho raccontato, fosse in grado di mettere il tassametro a zero. Come se qualcuno avesse detto ad alta voce, nel quartiere più difficile al mondo: proviamo di nuovo. Marco Greco ha, in apparenza, una vita come tanti altri, classe media, un padre di origine calabrese che si è fatto col suo lavoro e che possiede un negozio di alimentari (Mike & son delicatessen, in Arthur Avenue), le scuole sempre in questo quartiere. New York, si sa, è un deposito di talenti che ogni momento possono esplodere. «Non arrenderti ai cliché» La sorpresa non è il talento, che questo giovane attore ha, evidentemente, in misura notevole, tanto più che è non solo l'interprete ma anche l'autore dei suoi testi, e che la sua scrittura è senz'altro bella e professionale. Non è neppure nello spirito di una iniziativa, che ricorda più la vecchia America benevola degli Anni Sessanta che non quella delle cronache, immediate e terribili, che ho riportato. Alle sue spalle c'è la famiglia, un padre intelligente che parla bene l'italiano e che l'ha insegnato ai suoi figli. E c'è un teatro, il «Belmont italian american playhouse», diretto da un signor Lou Izzo, che non si dà per vinto se mancano mille dollari per andare in scena. Però mi accorgo che, descrivendo questa «sorpresa», sto raccontando la storia di uno scostarsi ostinato dai luoghi comuni. Lo sforzo di vivere senza indossare una maschera. Il testo e la rappresentazione di Marco Greco dicono che un cliché non si forma da solo, non è solo il prodotto dello sguardo ostile di altri. La lezione che l'anziano pugile nero spiega al giovane e insicuro italiano, con mille talenti e nessuna immagine, è questa: «Non lasciarti catturare dal cliché, non ti arrendere». Il cliché vuole che gli italiani siano impetuosi, enfatici, bravi a far le cose con le mani, ma con poca testa. Mi dice Mike Greco, padre dell'attore-autore: «Purtroppo è vero. Fra i ragazzi italiani americani c'è la più alta percentuale di abbandono della scuola prima del diploma». Dunque questa ostinazione del fare teatro esemplare nel Bronx è «controcorrente», come dice nell'atto unico (che si intitola Rinascimento) il vecchio pugile al giovane italiano. Ma qui, nelle strade del Bronx, si scopre qualche altra cosa che non sembrano sapere né i politici né i media americani: c'è un filo di cooperazione quotidiana tra italiani americani e comunità nera. Certo c'è in questo spettacolo e in questo teatro, e mi domando come mai il sindaco di New York non sia qui a far festa, mi domando perché non ci siano le telecamere delle televisioni americane. Il regista dello spettacolo scritto e interpretato da Greco è un altro giovane del quartiere. Si chiama Dante Alberti. Come Greco, è netto in quello che dice, sicuro di quello che fa, anche su di lui il cliché non ha fatto presa. Una folla di spettatori africaniamericani (così, dice il testo di Greco, bisogna chiamare i neri d'America) fanno la fila per stringere la mano ai due ragazzi italiani-americani. Noto che anche Mike Greco, il padre, anche Luisa, la sorella, si mettono in fila per la stretta di mano e i complimenti, orgogliosi e un po' timidi. Bambine nere con le treccine colorate hanno ammassato un po' di crackers e pezzettini di formaggio sulle sedie per fare merenda. C'è un'organizzazione di donne italiane che si chiama «The Big Sisters» e c'è un'organizzazione di donne nere che si chiama Nia. A quanto pare sono qui per offrire sostegno. Che cosa stiamo vedendo? L'uno per cento dell'uno per cento della realtà, una frazione irrilevante, una eccezione che conferma la regola? Niente, in questa piccola sala, niente nel «Belmont Theatre» e nei suoi giovani attori italianiamericani e neri; niente, nelle famiglie che si raccolgono intorno a questo strano esperimento, conferma il cliché. Anzi se ne liberano in modo così netto e coraggioso da lasciare ammirati e stupiti. Forse la spiegazione è in un bellissimo murale di autore ignoto che si può vedere tornando dal Bronx a Manhattan, alla 123a Strada all'angolo con Lexington Avenue. Si intitola (c'è scritto sopra, in grande, in spagnolo) «Il sogno». Rappresenta una campagna colorata, un grande cielo azzurro, uccelli che volano, un senso di spazio, libertà e armonia. Inutile dire che questa storia avrà un seguito. Furio Colombo 7/ dialogo bruciante tra un vecchio pugile di colore e un giovane bianco fa discutere sulle identità etniche in una città devastata dalla violenza Il Bronx è il quartiere più «diviso» di New York. Ancora una volta, fra il 12 e il 19 gennaio è esplosa la violenza

Luoghi citati: America, Manhattan, New York