Malpensante in manicomio di Lorenzo Mondo

Malpensante in manicomio Il pamphlet di Vertone Malpensante in manicomio N giustiziere si aggira nei meandri di un manicomio, pronto a colpire senza pietà medici, infermieri, pazienti, commisurando l'entità del castigo a una personale per quanto rigorosa graduatoria. Potrebbe essere l'avvio di un racconto giallo ed è invece il tema immaginoso suggerito da un pamphlet, Luitimo manicomio, elogio della Repubblica italiana (Rizzoli) di Saverio Vertone. Lui è il killer, armato di indignazione, sarcasmo e sprezzo, mosso dall'umor tetro che è proprio dell'inguaribile malpensante. La sua tesi è di chiara, solare evidenza: la famosa legge 180, quella ispirata all'antipsichiatria di Basaglia, ci ha regalato il paradosso supremo di un Paese che si nutre di paradossi. Ha cioè eliminato i piccoli manicomi, lasciando sussistere il grande manicomio chiamato Italia o, per meglio dire, il sistema politico che lo governa. Spennati con le tasse La requisitoria di Vertone è serrata. Siamo arrivati al punto che i partiti sembrano costretti «a spennare il Paese con le tasse per amministrare lo Stato, e a demolire lo Stato con le elargizioni per tenere buono il Paese». Non esiste più una maggioranza o una opposizione ma una sola «Agenzia Parlamentare» che cerca di durare a esclusivo beneficio degli addetti. Complice un decennio di leggi dissennate, in Italia «ciò che è permesso non si può fare e quel che è proibito si fa». L'autore, tra le varie disfunzioni, ha in mente soprattutto l'indulgenza e l'eccesso di garantismo che rendono lo Stato impotente nella guerra contro la criminalità. Ne fa responsabile una cultura che ha idolatrato Rousseau senza tenerlo a bada con Hobbes: l'uomo di denti voraci avventato contro l'uomo naturalmente buono che si incanta a guardare i fili d'erba e le stelle. Aggiungerei che, per i tanti presunti alunni della cristianità, basterebbe ricordarsi del «mito» biblico sul peccato originale, di queste lontane radici del male. Per quanto riguarda la sinistra, il rispetto e l'amore per la devianza hanno sempre avuto una funzione polemica (tutta colpa della società esistente) e magari autodifensiva (dietro le sbarre potremmo finire anche noi). Tante che, arrivati al potere, i gauchistes strappalacrime sono stati prodighi di ghigliottine e di forche. Vertone, nella sua esplorazione del manicomio italiano, non risparmia i comportamenti dei governati, il loro patto sornione con uno Stato che deve garantire in primo luogo i loro interessi individuali e corporativi. Ma esiste una soglia oltre la quale gli interessi perseguiti egoisticamente da ciascuno diventano un fallimento per tutti («è pericoloso, oltre che stupido, identificare l'autoritarismo con la puntualità dei treni e la democrazia con lo sfascio dei trasporti»). Il tramviere che mette sempre al primo posto il suo malessere anziché quello del servizio rivolto ai cittadini sarà punito - si fa per dire - dal professore protestatario che gli cresce il figlio cretino E così via, a colpi di reciproci dispetti e danneggiamenti. Quando poi l'esasperazione di ogni gruppo contro l'altro e contro lo Stato giunge al colmo, ecco affacciarsi la figura del cobas o del leghista. Con !a pretesa di decentrare e smantellare uno Stato che, a rigore, non è mai esistito Viene buono allora l'excursus storico «da Alboino a Andreot ti», che si chiude con il Risorgi mento salvato dallo Stellone, il grande equivoco delle contrapposte rivoluzioni totalitarie («Mussolini ha regalato all'Italia vent'anni di fascismo e quarantacinque di antifascismo»), il compromesso della Costituzione repubblicana, l'invisibile cortina di ferro calata sul nostro Paese a legittimare per l'eternità il governo democristiano e l'opposizione comunista (in mezzo i laici, evanescenti o succubi). E' soltanto il filo conduttore di una disamina che diventa nuova e vivida per le risorse di un polemista che si affida all'epigramma fulminante, allo spiazzamento storico in funzione di choc, alla felicità dell'immagine. Con la dote rara del segugio specializzato nello stanare la stupidità dai più insospettati recessi (valgano per tutte le pagine sull'infantile protervia di Sartre, o quelle - soffuse di involontario umorismo alla Campanile - sulla noia degli intellettuali che «esigono» dalla Storia ideali grandi: senza accontentarsi di saper distinguere di volta in volta, nella grettezza dei tempi, il giusto dall'ingiusto, il bene dal male). Non è difficile cogliere sullo sfondo, insieme all'indicazione di salvagente estremi quali la riforma istituzionale, il ricambio del personale politico, la ricomposizione dei nostri partiti obsoleti, l'appello a una ragionevolezza che non può essere disgiunta da una robusta coscienza morale. Ma l'efficacia del libello sta soprattutto, per congenita vocazione, nella «pars destruens», nella trafittura entomologica di vizi ed errori. Chi è tentato di ravvisare nella Storia gli indizi di uno sterminato manicomio (il shakespeariano «racconto detto da un idiota, pieno di urlo e di furore, che non significa nulla») non faticherà a consentire con questa rappresentazione del piccolo, contingente manicomio italiano. Correggendo magari qualche luce di ottimismo nello stesso Vertone. Il quale è convinto che almeno la nostra lingua sia cambiata in meglio, sia diventata «più limpida, rapida, trasparente», una lingua che non attinge più alla letteratura ma alla vita. Gli esempi in negativo tratti con evidente provocazione da Leopardi (che nonostante i suoi «conciossiacosacché» ha pure scritto le «Operette morali») non dimostrano granché, del resto dopo Leopardi c'è stato Manzoni che, illudendosi sulla prossima unità italiana, ha cercato di modellare la sua lingua sulla nuova coscienza di nuovi parlanti. Un doppio salto mortale Ma le parole della politica, degli stadi, della tv - la poltiglia che si fa beffe della scuola garantita e dei buoni libri - non riescono davvero a rassicurarci. Non scopriremo un giorno che anche gli scrittori di oggi scrivono soltanto per sé e per i soliti - mai più di tanti - lettori destinati all'estinzione? Non appariranno alieni come Leopardi, davanti a una comunità che, nella sua maggioranza, si esprime con duecento parole? Con tanti saluti per le sottigliezze del sentimento e dell'intelletto? Sembra un destino: anche questa volta, noi italiani, siamo arrivati tardi. Abbiamo ottenu to una lingua moderna e unita ria nel momento in cui tutte le lingue si trovano sulla difensiva, contano meno davanti alla potente suggestione del gesto e dell'immagine. Ci serve, per uscirne, un doppio salto morta le. Lorenzo Mondo

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