Parliamo MALE di noi

Parliamo MALE di noi Parliamo MALE di noi MILANO GCO un uomo che s'è sorbito l'intera Enciclopedia Britannica, 23 mila pagine in 23 volumi, per dimostrare che l'Italia è un grande e fortunato Paese. «Un'impresa forse demenziale, la mia», riconosce l'avvocato milanese Sergio Travaglia, 69 anni, originario di Fiume, lunga carriera di manager importante alle spalle. «Ho trovato nella Britannica il "testimonial", l'autorità non sospetta che cercavo», spiega. In un mare di 40 milioni di parole ha pescato e contato al computer le righe che si riferiscono ai sette Paesi secondo lui più quotati nella Borsa della storia e ha stilato la hit parade dei meriti culturali. Chi ha più righe, vince. Il risultato (ma non lo sapevamo già?) è per noi italiani fastoso: siamo primi nelle arti, nel diritto, nella mitologia, negli esploratori, nei santi e in altri campi; figuriamo sempre bene nei confronti dei Paesi rivali (Francia, Germania, Giappone, Graii Bretagna, Svezia e Svizzera). Travaglia ha scritto tutto in Maledetti italiani, che uscirà a giorni da Rusconi. Lasciamo perdere le forzature e le lacune del metodo bizzarro e gli avventurosi giudizi sparsi qua e là. Quel che interessa di più è lo scopo per cui l'autore pubblica il libro: «Voglio combattere lo sfascismo, la nostra abitudine a denigrarci. Abbiamo molti buoni motivi per essere orgogliosi di quél che siamo: motivi storici e motivi attuali, perché qualche primato industriale di recente siamo pure stati capaci di raggiungerlo. Adesso affrontiamo un periodo difficile, è sicuro, e io ne parlo, ma possiamo superarlo». Sicché il «maledetti» del titolo è un rimprovero affettuoso, vale al massimo un «birichini». Nel supermercato del mondo il prodotto-Italia brilla insomma per ingredienti eccellenti, ma è buttato là malamente, senza richiamo: «Reclamizziamoci finalmente anche noi. Impariamo dagli altri Paesi, lo comincio». Benedetto Travaglia. Mentre in tv, sui giornali e nelle case infuriano discussioni di cupa tensione e affreschi da Apocalisse sul nostro futuro, lui se ne esce con questo strano, gioioso elogio critico. Vecchia storia; la scontentezza di sé degli italiani: già nel 1730 il fine intellettuale bergamasco Pietro Calepio li riconosceva bravi a «pregiar più le cose forestiere che le proprie». Siamo tuttora diffidenti verso quasi tutto quel che facciamo (diciamo che è «all'italiana»). E piangiamo su molte cose: sul debito pubblico, sugli ospedali e sulla giustizia, sulla mafia e sulla scuola; ma anche sul tempo: se d'inverno piove i fiumi straripano, se non piove l'aria si inquina; se piove d'estate addio vacanze, se non piove manca l'acqua nel rubinetto. Su questo fondo di tradizionale vittimismo e disfattismo più o meno spicciolo e giustificato, si aggiungo- no ai nostri giorni vaticini realistici di disastri alle porte. Che cosa sta succedendo? Non si starà esagerando nell'adorare il dio Masoch? Perché, per cominciare, gli italiani si buttano tanto giù di fronte agli altri Paesi? Risponde Travaglia: «Per signorilità. L'italiano non sottolinea né i propri meriti né i difetti degli stranieri. Collabora anzi con loro a ingigantire le proprie mancanze. Io mi sono stufato e reagisco». Un conto è infatti il «fair play»: nel rispetto delle regole, cerco di ricavare vantaggi e di arrecare danni. Un altro conto è la signorilità, che mi fa rinunciare ad affondare il colpo. Un atteggiamento che per Travaglia non è né cinico né scettico, ma disincanto socievole, distillato festoso: l'italiano viene da lontano e sente il carico degli eventi passati: per cui è indulgente con gli stranieri e ironico con se stesso. Ma tanta eleganza non paga. Signorilità? Un concetto che fa discutere. Francesco Alberoni trova la radice dell'auto denigrazione nazionale nei secoli di soggezione: «Dal '400 in poi siamo stati dominati, siamo stati costretti a girare il mondo col cap¬ pello in mano e a chiedere scusa di essere bravi. Eravamo e siamo infatti bravissimi, ma diamo fastidio. In questo paragonerei un po' gli italiani agli ebrei: vinti ma intelligenti, deboli ma potenti nella cultura. Non ce l'hanno mai perdonato». «Quattro secoli di servaggio» Per il sociologo «abbiamo interiorizzato questi quattro secoli di servaggio e un secolo di emigrazione. Siamo ancora come Fantozzi, che dappertutto trova un capo da cui viene chiamato Fantocci e merdaccia e lui gli risponde "com'è umano lei"». Come se ne esce? «Ridendoci su. E' l'unica soluzione». Maria Antonietta Macciocchi ha pubblicato due anni fa La forza degli italiani (Mondadori), elogio di un popolo che si governa da sé perché la classe dirigente amministra solo se stessa: un popolo «che si alza la mattina e si sente solo al mondo, si rimbocca le maniche lavorando fino a sera e quel che guadagna se lo spende in pranzi e gite e questo dà l'idea che in Italia corrono fiumi d'oro». Il non prendersi sul serio fa parte di questo gran gioco che impazza in Italia, dove «c'è una società-spettacolo che ingoia tutto e non approfondisce nulla, che ama solo lo scherzo e la farsa». Da cosa nascerebbe quest'euforia complessa? «Dall'unica continuità che abbiamo: la nostra classe dirigente ha sempre asservito gli intellettuali, anche quelli che appaiono ribelli. Il nostro Stato giovane dà agli intellettuali un rilievo marginale, li pensa come giullari. Il risultato è che molti intellettuali e l'italiano medio buttano tutto in burla». Vie d'uscita? «Le vedo nei giovani. Ho l'impressione che non vogliono più passare per la politica. Finalmente. Ci europeizziamo. Cominciamo forse a ritenere autonoma la cultura, un fatto importante affinché un popolo abbia sicurezza». Nelle parole della Macciocchi sembra di cogliere un'amarezza: giovedì scorso ha ricevuto da Mitterrand la Legion d'Onore, «mentre in Italia non ho mai avuto nulla. E un unico messaggio italiano è giunto a Parigi, un solo segno di vita dal mio Paese: il grazie di Cossiga a Mitterrand per l'onore fatto a un intellettuale italiano. La Legion d'Onore data alla Loren e a Strehler, quella sì ha preso spazio nella nòstra stampa. Una conferma: l'Italia è un Paese che ama il teatro, in tutti i sensi». Lucio Colletti approfondisce i motivi storici: «Perché non ci vogliamo bene? Rileggiamoci De Sanctis, le pagine sul "particulare" di Guicciardini, sulla "corruttela" dominante, una specie di sifilide dell'anima. Mancando uno Stato, non si afferma neppure il senso dello Stato». Aggiunge che «l'Italia è stata solo sfiorata dalle guerre di religione, che hanno insegnato a morire per i principi anziché per i delitti d'onore». Tra cattolici e comunisti Si sono poi succeduti la crisi dello Stato liberale, il fascismo, e da ultimo, nel dopoguerra, «il crollo di ciò che era restato dello Stato, e il campo è stato occupato da due forze rispettabili quanto si voglia ma comunque sovrannazionali: i cattolici e i comunisti». Il filosofo riconosce: noi italiani avremo pure qualche difetto caratteriale, come «l'abitudine a dissociarci da quanto si decide nella sfera pubblica»; ma poi lo giustifica, perché «questa scontentezza nazionale trova una ragione nella natura e nella qualità della nostra classe politica». Per Colletti il quadro attuale d'Italia è quello di «un grande circo equestre, con il sindacalista Marini che diventa ministro del Lavoro, il sindacalista Benvenuto che va alle Finanze e Andreotti che va da Baudo e dalla Carrà per intrattenerci sui suoi libri, scritti in italiano saltellante. Capisco che gli stranieri si trovino bene qui: si mettono in mutande e si rinfrescano i piedi nella Fontana di Trevi. Ma per noi che ci viviamo tutti i giorni la musica è un'altra». Dice: «Adesso mi daranno dello sfascista, del catastrofista. Allora domando: è in ordine la finanza pubblica? C'è una larga fiducia nella nostra classe politica? Sono pronte le alternative?». Alcuni primati economici però li abbiamo: «Io non parlo di gruppi particolari, pieni di operosità e di inventiva - replica -. Parlo di Stato, di coscienza dello Stato». Un rimedio? «Rimettere in piedi appunto lo Stato. Ma mi assale un dubbio: c'è ancora uno Stato? Per di più sottoposto oggi a spinte di disgregazione particolaristica? Quanto a me, non so neppure per chi votare». Alberoni che identifica l'italiano con Fantozzi, la Macciocchi che vede l'Italia come Paese del Gioco e Colletti che la vede come Grande Circo: anche loro sono maso-italiani? Il buon Sergio Travaglia con il suo Maledetti italiani, è isolato nell'entusiasmo? No, perché anche lui alla fine parla di «crescenti scricchiolii nel sistema italiano» e di «bivio drammatico»: o si cambia, traendo auspici dai nostri primati di ieri e di oggi, o si precipita. Va in sostanza d'accordo con Saverio Vertone, che ne L'ultimo manicomio (appena uscito da Rizzoli) vede gorghi e burroni imminenti e tuttavia evitabili, come lo scontro fra Nord e Sud e la Costituzione che resiste a ogni riforma («Stiamo soffocando sotto il cadavere di una Repubblica che nessuno vuol seppellire»). Dovremmo rifare leggi e disporne altre, liberarci dal «miscuglio di garantismo, misticismo gauchista e perdonismo cattolico» stile Anni 70. Per questo lui ha scritto il libro, perché «le probabilità di evitare il gorgo sono scarse, ma non nulle». La nostra nave dei folli avanza in un rombo avvolto da spuma bianca: sono i segni della caduta vicina, della cascata davanti a noi sul fiume. Tutto sta a saperli sentire e vedere, quei segni. Fra tanti nuvoloni e lampi, Gino e Michele non rinunciano al sorriso. Hanno appena consegnato a Baldini & Castoldi il seguito di Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano (Einaudi, 430 mila copie finora). Estraggono dalla nuova raccolta satirica una battuta di Enzo Costa: «Niente mi toghe dalla testa che la diffusione del cristianesimo in Italia e dovuta alla nostra esterofilia: volete mettere se Gesù, invece che a Betlemme, fosse nato a Cesenatico?». Si aggrappano alla famosa battuta di Orson Welles nel Terzo uomo: «In Italia per 300 anni sotto i Borgia ci sono stati guerre, terrore, criminalità, spargimenti di sangue. Ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento. In Svizzera vivevano in amore fraterno, avevano 500 anni di pace e democrazia. E cosa hanno prodotto? L'orologio a cucù». «Proviamo anche noi nausea di fronte all'Italia d'oggi - dicono Gino e Michele -. Una situazione che è un casino. Ma noi non ci mettiamo a vomitare, non ci suicidiamo. Magari stanno nascendo altri Michelangelo. Aspettiamo di incontrarli». Claudio Alta rocca Perché ci denigriamo con toni apocalittici? Un pamphlet offre ottimismo e riaccende il dibattito Alberoni: Uguali a Fantozzi. Macciocchi: La società-farsa. Colletti: Gran circo equestre. Gino-Michele: Eppur si ride