Lina, amaro compito in classe di Simonetta Robiony

Lina, amaro compito in classe Diventano film i 60 temi degli scolari di Arzano raccolti in un libro da D'Orta Lina, amaro compito in classe Wertmuller gira «Io speriamo che me la cavo» ROMA. Lina Wertmuller ha già cominciato le riprese di «Io speriamo che me la cavo», la famosa raccolta di sessanta temi svolti dai bambini della scuola elementare di Arzano. Un libro fortunatissimo che ha lanciato il maestro Marcello D'Orta nel mondo degli autori e ha creato nell'editoria una moda sociologico-linguistica, come se a raccontare il mondo, oggi, alle parole degli esperti fossero da preferire quelle della gente comune, meglio ancora quelle dell'infanzia. Lunghissimo il lavoro di preparazione. Trasferire in una sceneggiatura dei temi scolastici, temi su la famiglia, il paese, la Storia, le parabole, la televisione, la droga, il lavoro, non è un'impresa semplice. Occorre restituire in forma drammaturgica quello che invece è scritto in forma piana. Occorre rendere concreto ciò che induce al sorriso perché irreale, frutto di un pensiero infantile appena suggerito da un titolo. Come trasformare le considerazioni sulla Svizzera, «Paese che vende le armi a tutto il mondo per falh scannare ma lei non fa neanche una guerra piccolissima», in una scena collettiva, cinematograficamente attraente? Come mostrare lo struggimento di un bambino che scrive a suo padre emigrato a Torino: «Tu a Torino non ci volevi andare, mi ricordo, dicevi che quella gente non ci poteva vedere, che il clima era una schifezza, la lingua una schifezza, il mangiare una schifezza, tutti i torinesi una schifezza»? Come spiegare che la fine del mondo, per un ragazzino di un paese senza futuro quale è Arzano, è il momento in cui «Il sindaco di Arzano e l'assessore andranno con le capre. I bambini del Limbo diventeranno farfalle. Io speriamo che me la cavo»? In che maniera far vedere il disfacimento fisico di questi centri abbandonati a se stessi dove le case sono «sgarrupate, i soffitti sono sgarrupati, i mobili sono sgarrupati, le sedie sgarrupate, il pavimento sgarrupato, i muri sgarrupati» però ci si vive lo stesso perché è la propria casa? Seduta nel suo splendido studio affacciato su Piazza del Popolo, in alto, infilate nella cornice di un quadro, le foto della figlia adottiva Maria Zulima, in basso la confusione ricca e felice di chi può aver molto e tutto bello, Lina Wertmuller racconta il lavoro di scrittura fatto a tavolino con tre giovani sceneggiatori, Domenico Savazzi, Alessandro Bencivenni, Andrea Longo e con i i vecchi amici di sempre Benvenuti e De Bernardi. Più un paio di incontri, approfonditi, con Marcello D'Orta per meglio entrare nello spirito del libro. Ma soprattutto il lavoro fatto a Napoli, nella sua immensa periferia, giù verso le pendici del Vesuvio e su fino alla piana di Caserta per cercare luoghi e volti con cui costruire il tessuto del film. «Io speriamo che me la cavo», prodotto da Ciro Ippolito e distribuito dalla Penta, è certo anche un film interpretato da attori: Paolo Villaggio, nella parte del maestro, ne è il protagonista e al suo fianco sono stati chiamati Paolo Bonacelli, Isa Danieli, uno dei fratelli Maggio, uno della famiglia Taranto. Soprattutto, però, è un film su una classe di bambini di terza ele- meritare, bambini normali, né migliori né peggiori dei loro coetanei. E per trovarne una ventina, tra maschi e femmine, con la faccia giusta, la capacità di reggere la macchina da presa, la tenacia di imparare il proprio ruolo, la pronuncia in quella lingua sgangherata che è l'italiano usato nei temi dei bambini di Arzano, la ricerca è durata molti mesi. Si è cominciato nel giugno scorso con una convocazione a mezzo «Il mattino» e le tv locali presso il teatro Politeama di centinaia di bambini; si è continuato setacciando le scuole, quartiere per quartiere; si è finito dopo quattro selezioni e quindici ore di provini costituendo una classe a Portici, dove il maestro di recitazione Riccardo De Luca, ogni pomeriggio, insegna al gruppetto prescelto a diventare attori. Lina Wertmuller, che a Napoli ha ambientato gran parte del suo cinema da «Pasqualino Settebellezze» a «Sabato, domenica e lunedì», è impressionata soprattutto da una cosa: il contrasto tra l'immenso degrado esterno in cui vivono la maggioranza di queste famiglie e la forte tenitura morale nella quale crescono i loro figli. «Napoli si è allargata nella sua crescita spasmodica inglobando paesi e paesetti. Oggi è una megalopoli a più facce: le torri avveniristiche da mirabili sorti e progressive, e lo sfascio dell'edilizia selvaggia che ha stretto in una morsa vecchi centri storici, chiese monumentali, piazze antiche. Napoli non è più un intrico di vicoh' e strade, bassi e palazzi aristocratici. E' un'altra cosa. Molto moderna, anche, e avanzata. E i napoletani non sono solo camorristi, delinquenti, spacciatori, contrabbandieri, sfaccendati: sono operai, commercianti, lavoratori, impiegati. C'è molta brava gente, gente che in quel papocchio di valori e disvalori che è stata la crescita disordinata della nostra società riesce ancora, sorprendentemente, con enorme fatica, a non smarrire il proprio patrimonio familiare di affetti e di tradizioni. In America a questi cittadini normali e ignoti avrebbero fatto un monumento. In Italia non si usa. Il film vorrebbe essere un atto di ringraziamento ai tanti che hanno permesso al paese di resistere». Amareggiata dalla miopia dei politici che hanno dimenticato Goethe e tolto a Napoli quel primato di città di bellezza e di armonia in cambio di uno sviluppo caotico e irrazionale; indignata per lo scarso investimen¬ to nella istruzione pubblica quando invece una scuola ben fatta potrebbe ridurre di molto il fenomeno dell'abbandono scolastico, fortissimo nel Napoletano; commossa dalla vivacità ben educata con cui la maggioranza dei bambini ha accettato di sottoporsi ai provini non per guadagno né per ambizione ma per vivere una esperienza diversa, Lina Wertmuller non è disposta a fare del folklore sulla città e sulla sua infanzia. «Il libro di D'Orta ha avuto il merito di restituire al Sud quell'immagine che il Nord tanto amava. Mi piacerebbe che Bossi lo tenesse sul comodino accanto al letto e lo leggesse prima di tenere un comizio per la Lega». «Certo, la realtà della periferia napoletana è "sgarrupata" come scrivono i bambini di Arzano. Il gusto del bello è perduto: non riescono più a vederla la bellezza, devastati come sono da una miriade di costruzioni orribili. Ma il loro sguardo resta limpido. Può far impressione che la storiella più frequentemente raccontata dai bambini durante i provini era questa: "Un bambino va dal dottore. Dottore, dice, mio fratello si buca. E il dottore risponde: portalo dal gommista". Ma a me ha fatto ancora più impressione vedere che dentro a quest'universo malato, tanti tantissimi sono ancora i bambini sani che non spacciano, non uccidono, non ridiano, non si prostituiscono ma vivono sostenuti dai loro padri e dalle loro madri, sperando ancora». Anche questa è retorica? Lei, Lina Wertmuller, è convinta di no. Qui accanto Lina Wertmuller. Più a destra Paolo Villaggio nel ruolo del maestro. Sotto Paolo Bonacelll Paolo Villaggio è il maestro della «sgarrupata» scolaresca Per trovare i ragazzi setacciati scuole e quartieri Isa Danieli Simonetta Robiony