Lubitsch giocoliere in cabina di regia di Gianni Rondolino
Lubitsch giocoliere in cabina di regia Le manifestazioni a 100 anni dalla nascita Lubitsch giocoliere in cabina di regia NCHE nel gennaio di cent'anni fa, come ogni anno, a Berlino pioveva e faceva freddo. La città si apprestava a festeggiare il trentatreesimo compleanno dell'imperatore Guglielmo II, che cadeva il 27. Due giorni dopo, alle sette di mattino, la signora Anna Lubitsch, moglie di Simon, che aveva una bottega di sartoria per signora in Lothringer Strasse, e madre di tre bambini (Else, Richard, Margarethe) diede alla luce il suo quarto figlio, cui fu dato il nome di Ernst. Anziché seguire la carriera paterna e diventare magari un rinomato couturier, ovvero occuparsi di contabilità come avrebbe voluto il padre, il giovane Ernst fu attratto dal teatro. In una città come Berlino agli inizi del secolo, pullulante di teatri, di sale cinematografiche, di locali notturni e di caffè, il mondo dello spettacolo non poteva che abbagliare e sedurre. Ed Ernst diciannovenne entrò nella compagnia di Max Reinhard: per interpretarvi, fra il 1911 e il 1913, ben tredici spettacoli, tra i quali Georges Dandin di Molière e ben cinque Shakespeare: le due parti di Enrico IV, Sogno di una notte d'estate, Molto rumore per nulla, Amleto. In quei lavori i suoi ruoli erano del tutto secondari, marginali. In Amleto interpretava la parte del secondo becchino: una rara fotografia, pubblicata nello splendido libro Lubitsch, curato da Hans Helmut Prinzler e Enno Patalas (ed. Bucher, Monaco 1984), ce lo mostra seduto di fronte al primo becchino, con lo sguardo interrogativo e un poco ironico. Nel primo Enrico IV era Peto, in Molto rumore per nulla lo scrivano, Colin in Georges Dandin e così via. Una carriera teatrale, come si vede, piuttosto mediocre, e tuttavia estremamente formativa per il giovane Lubitsch che, proprio allora, doveva fare il gran balzo dal palcoscenico allo schermo, dal teatro al cinema. E fu un balzo che lo vide, attore e regista, in una serie di brevi farse cinematografiche, perfettamente a suo agio. Perché la bidimensionalità della scena e l'assenza della parola conferivano alla sua maschera di personaggio ironico e al suo corpo dinoccolato, quasi di marionetta, una realtà cinematografica inconfondibile. Non solo, ma la sua comicità un po' plebea, l'umorismo ebraico che gli era proprio, il gusto per il lazzo, facevano di questi filmetti dei piccoli capolavori comici, in un tempo in cui dominavano Mack Sennett e Charlie Chaplin, Cretinetti e Max Linder. Ma Lubitsch seppe anche, passando dietro la macchina da presa, scoprire le leggi del cinema, fare della regia un mestiere raffinato. 1 suoi film, chesi andavano facendo sempre più lunghi e complessi, affrontavano i più disparati generi di spettacolo, dalla commedia al dramma, con quello stile, levigato e scorrevole, che sarebbe stato in seguito chiamato The Lubitsch touch, il «tocco» di Lubitsch. Quasi a significare una sorta di marchio di fabbrica, garanzia di piacevolissima e accattivante spettacolarità. Ed erano film, i suoi, che egli riusciva a realizzare rapidissimamente, nonostante la cura che vi prodigava. Nel 1918 ne gira sette, fra cui Carmen con Pola Negri, nel 1919 cinque, fra cui i capolavori La principessa delle ostriche, Madame Dubarry e La bambola di carne, nel 1920 quattro, fra cui Sumurun e Anna Balena. Operedi notevole prestigio formale e di vasto successo popolare. Insomma il regista adatto, al tempo stesso, per le grandi produzioni e per le piccole commedie. L'uomo giusto per fare di Berlino la Hollywood europea. Sarà invece Hollywood a chiamarlo, e sarà a Hollywood che Lubitsch inizicrà una seconda carriera registica, quella più nota al pubblico internazionale. Nasce così un mito: il mito del Lubitsch autore delle più belle commedie sofisticate, dei più bei film-operetta, il regista di Maurice Chevalier (nel Principe consorte, neWAllegro tenente, in Un'ora d'amore, nella Vedova allegra) di Marlene Dietrich (in Desiderio, in Angelo), della Garbo che ride (in Ninotchka) e di tanti altri attori brillanti. Il regista che fa ridere con discrezione e grande buon gusto, che diverte e si diverte, giocoliere che usa i suoi attori come fossero oggetti da lanciare nell'aria, senza tuttavia privarli della loro umanità. Anzi, a ben guardare, prò- prio questa umanità traspare dietro la facciata splendente delle sue commedie - o dietro le porte che si chiudono immancabilmente in quasi tutti i suoi film -a costituire lo «spessore» del suo discorso all'apparenza evasivo e superficiale. Come di uno sguardo lucido e amaro sulla realtà, lo sguardo del piccolo ebreo berlinese che ha visto la sua patria sottomessa al dittatore Hitler e il suo popolo oppresso. Di qui un certo scetticismo, un disincanto, persino una punta di cinismo. Ma se si vede un film come Vogliamo vivere, realizzato nel 1942 e ambientato nella Polonia occupata dai nazisti, quel disincanto e quello scetticismo scompaiono di fronte alla gravità del momento; e nasce un'opera di straordinaria intensità drammatica dietro il sempre leggero e amabile «tocco» di Lubitsch. E se si vede // cielo può attendere, dell'anno seguente, quella punta di cinismo si tramuta in una sottile autoironia, quella leggerezza e amabilità si caricano di una impercettibile vena di malinconia, persin di tristezza. Come se Lubitsch volesse darci con questo suo film simbolicamente autobiografico, quasi un testamento spirituale, la ricapitolazione della sua carriera. Una carriera per molti versi esemplare, che ha fatto del cinema uno strumento ideale per cogliere e rappresentare al tempo stesso il piacere del vivere e il suo risvolto tragico, l'impalpabilità dell'esistenza e il suo profondo significato. Un cinema raffinato e popolare, di grande spettacolo e di sottile ironia, di cui oggi si sente la mancanza. Gianni Rondolino Greta Garbo e Melvyn Douglas in «Ninotchka», un classico del cinema americano girato da Ernst Lubitsch nel 1939
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