Pelè l'alfiere nero dà scacco di Marco Ansaldo

Pelè, l'alfiere nero dà scacco L'attaccante del Ghana, miglior giocatore della Coppa d'Africa, è sicuro di poter vincere la sfida con i ricchi atleti del calcio italiano Pelè, l'alfiere nero dà scacco DAKAR DAL NOSTRO INVIATO La prima domanda che si vorrebbe porre ad Abedì Pelè, il miglior calciatore d'Africa del momento, è dove ha comprato la camicia che indossa quando lo incontriamo nel ritiro del Ghana. La seconda è come faccia a portarla sotto il sole dei tropici. Pelè, tuttavia, si arrabbierebbe. Sembra orgoglioso di quel look che celebra la sua diversità dai pedatori africani: loro girano in tuta e T-shirt, lui ha una giubba di velluto nero con inserti di raso giallo, viola, rosa, lilla, i pantaloni di cotone grigio e porta al collo una catena d'oro che non sfoggerebbe, per prudenza, sulla Canabière di Marsiglia, la città dove gioca abitualmente, tra le file dell'Olimpique. I capelli di Pelè sono corti e crespi, annodati in un codino più civettuolo di quello di Baggio, che ricorda un po' nel fisico e un po' nel gioco. Gli occhiali scuri non si spostano mai dal naso. Insomma gli piace colpire. E' il re. E' Pelè, il secondo africano che si può pre- sentare al nostro calcio, il primo vero, se si pensa a come passò nell'Ascoli la meteora dell'ivoriano Zahoui. Interessa, si dice, all'Inter e alla Sampdoria. Ma l'altra sera, nella stanza di Domenico Ricci, il procuratore che vorrebbe portarlo in Italia, lo stava ad ascoltare anche Claudio Gentile, l'inviato della Juventus alla Coppa d'Africa. Forse è solo un caso. O forse no. Certamente il gol che ha deciso la qualificazione del Ghana alle semifinali rilancia le quotazioni europee di questo ragazzo esploso tardi, ma che oggi è all'undicesimo posto nella graduatoria stilata dalla Fifa su tutti i calciatori del mondo. A 27 anni, Pelè si sente pronto per un nuovo salto di qualità, l'ultimo della carriera. «Tutti mi chiedono se potrei reggere il ritmo del calcio italiano - osserva -. So che ci sta riuscendo Shalimov, che cono¬ sco benissimo perché lo vidi nella Spartak Mosca. E penso di essere più forte di lui e di essere abituato ad un torneo, quello francese, che ha più qualità di quello russo». Su questo punto ha le idee chiare. Su tutto il resto invece è un po' confuso. L'impressione di un campioncino rovinato dal successo, svanisce parlandogli ed emerge il personaggio vero, tenero, che ne ha passate anche troppe nella vita. Pelè posa su uno scalino impolverato il sedere fasciato dai pantaloni preziosi e racconta come nasce una stella in Africa. Nasce da famiglia povera, come si può essere poveri qui. «Un padre con tre mogli, cinque fratelli per parte di mia madre, trentadue persone in tutto. Oggi, grazie alle qualità che ho nei piedi, stanno bene. Il calcio mi ha dato questa felicità, insieme a qualche sofferenza. Sono arrivato in Francia nell'86 e se mi chiedete cos'è il razzismo, ve lo so raccontare. L'Europa è razzista. Forse lo è anche da voi. Per la gente non sei più nero quando diventi importante». Un anno a Niort, uno a Mulhouse, sempre nella B francese. Poi il Marsiglia. «Ma soltanto quando Tapie mi ha prestato al Lilla, sono uscito dalla crisi. Lì mi sono trovato bene e ho corretto il mio carattere. Ho superato i complessi che avevo. Quando sono tornato a Marsiglia, dove i tifosi premono come in Italia e dove molti hanno votato Le Pen, mi sentivo sicuro dei miei mezzi. Ho sfondato». Nel frattempo ha trovato una moglie che lo segue pure qui e gli sono nati due figli ad assestargli la vita. Quel soprannome, Pelè, non è più sembrato un atto di vanità. «Molti credono che me lo sia messo da solo. Invece mi chiamavano così i tifosi quando avevo sette o otto anni e in Ghana era vivissimo il ricordo del vero Pelè. Quando, a 15 anni, mi chiamarono in Nazionale e mi fecero il mio primo passaporto, il presidente della Repubblica volle che ci mettessero pure il soprannome: lo divertivo. Non me ne sono mai sentito oppresso. Io mi considero un buon giocatore, un numero 10, che può fare la seconda punta o stare dietro i due attaccanti. Un po' come il vostro Baggio. Tutto qui». Ma perché, se è così bravo, sta per rompere il rapporto con la Francia e con l'Olympique di Marsiglia? «Non so. Tapie, il presidente, ha detto ai giornali che vuol vendere mezza squadra, ma a me, a Papin e agli altri non l'ha mai detto. Ho un anno di contratto, potrei restare. Però l'Italia mi piace per il senso della sfida, vorrei dimostrare che posso farcela anche lì. Non credo che sia un handicap l'essere africano. Noi, come gioca¬ tori, siamo bravi. Anche gli allenatori migliorano e lo si è visto con il Cameroun e l'Egitto ai Mondiali. L'Africa paga la carenza di strutture e la qualità dei nostri dirigenti, ma se ci inserite in un'organizzazione che funziona andiamo benissimo». L'Italia, dunque. Il Codino di Marsiglia ne avverte il fiato, l'interesse. «Il problema è che non c'è stato mai un contatto. Il mio manager e Tapie mi dissero che l'anno scorso, dopo la finale di Coppa dei Campioni, sarei andato alla Sampdoria. Io quelli della Samp non li ho visti. E neppure quelli dell'Inter, adesso». Eppure in fondo alle voci si percepisce una traccia di verità. Pelè sta dimostrando di essere il più europeo tra gli africani, l'unico che si muove in campo come chi sa dove deve andare: ormai è lui che impone gli uomini e la tattica al tedesco Pfister che allena il Ghana. Forse Abedì è davvero l'unica proposta che Dakar consegna al campionato. Se cambia camicia. Marco Ansaldo