Bruson, nel «Tell» un nobile debutto
Bruson, nel «Tell» un nobile debutto Verona, l'opera di Rossini al Filarmonico Bruson, nel «Tell» un nobile debutto Buona la regia di Luciano Damiani Merritt svettante, il tocco di Fidò VERONA. Racchiudere il «Guglielmo Teli» nello spazio ristretto del settecentesco Teatro Filarmonico non è un'impresa facile: si deve rinunciare al grande spettacolo, mantenendo l'impressione dei grandi spazi che la partitura evoca da capo a fondo con gli echi del «ranz des vaches», i riverberi dei timbri, l'indugio sulle fluviali ripetizioni in cui la musica si allarga, come l'acqua di un lago, dando l'impressione, tipicamente romantica, che il tempo diventi spazio: una lezione di cui non solo Berlioz ma Wagner stesso, come è noto, faranno tesoro. Luciano Damiani, autore di regia, scene e costumi, è riuscito molto bene nell'impresa. Intanto, la varietà degli ambienti è rispettata entro una cornice fissa di grandi piante che inquadrano ghiacciai, montagne, foreste, fiamme, acque, rese con i ben noti veli fluttuanti, luoghi romiti. Sono scene stilizzate, in forme compatte e solide, vagamente alla Cézanne, in cui il ruolo decisivo lo giocano le luci. Queste bagnano la cartapesta e la fanno palpitare in un'atmosfera alternativamente rosata, azzurrina, verde come le foreste, blu come la notte che avvolge tutto in una fitta nevicata. La regia è statica, ma non potrebbe non esserlo perché la drammaturgia del «Guglielmo Teli» è fatta per tre quarti di momenti esclamativi in cui l'amore, la libertà, la natura sono celebrati in un inno panico e trascinante. Il senso di questo teatro è appunto che l'azione si fermi, che il tempo si dilati in una stuporosa lentezza, rispondendo ad un bisogno diffuso della contemporanea musica europea: si pensi all'ultimo Schubert. L'unica sfocatura in questo spettacolo riguardava, a parer mio, la coreografia. Damiani e Lue Bouy hanno voluto rendere le danze in stile rustico e paesano: ma la musica è troppo chic per sopportare questo, e se Rossini nel «Guglielmo Teli» si ricorda di giocare, come un tempo faceva, con il teatro, usa proprio le danze per ricordarci di tanto in tanto che non siamo in Svizzera ma all'Opera. Avvolti nei bei costumi di Damiani che spostano la vicenda, se non erro, nel Cinquecento, i cantanti si sono mossi poco ma con naturale sobrietà. Difficile trovare un Guglielmo Teli più intenso, nobile e commosso di quello tratteggiato da Renato Bruson che debuttava nella parte; una parte non difficilissima, ma assai rischiosa per quella assenza di plasticità che caratterizza tutti i personaggi dell'opera, privilegiando Rossini la resa dell'atmosfera affettiva e dell'ambiente piuttosto che la scultura di veri personaggi. Tocca così ai cantanti dar loro un tocco definitivo, e Bruson l'ha fatto con una classe davvero superba. Accanto a lui, Chris Merritt si è confermato l'unico oggi in grado di cantare attendibilmente la parte di Arnoldo, che qualche offuscamento di intonazione non ha appannato nel profilo generale: appassionato e suadente. Come Matilde s'è apprezzata l'americana Deborah Voigt dalla voce robusta di soprano drammatico ma tutt'altro che impacciata nelrinfilare le perle della vocalità acrobatica, non più sontuosa e barocca, com'era nella «Semiramide». Bello spettacolo, ottimi interpreti ma, come si sa, il tocco decisivo lo dà sempre il direttore d'orchestra. E velino Fidò ha raccolto l'altra sera i frutti migliori dello studio assiduo e della preparazione scrupolosa che dedica ad ogni esecuzione. Tutto in orchestra era nitido e preciso, condotto con una musicalità ed un fraseggio freschi e naturali: ottenere dagli archi dell'Arena abituati, per oggettive necessità acustiche, a lavorare di peso più che di cesello, quella brillante leggerezza, dà la misura dell'attenzione dedicata dal direttore a far sì che ogni pagina della sconfinata partitura riuscisse viva ed interessante. Il coordinamento dell'assieme ha fatto il resto cosicché, dopo cinque ore, le ultime invenzioni di Rossini continuavano a stupirci. Successo vivo. Paolo Gallarati
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