Chi non insulta è perduto

Chi non insulta è perduto Parolacce di tutto il mondo raccolte in una rivista americana. La tradizione italiana, da D'Annunzio a Benigni Chi non insulta è perduto « IL primo uomo che lanciò un'invettiva anziché un'arma è stato il fondatore della civiltà». Lo disse Freud alla figlia Anna. Il guaio è che l'opera meritoria di quel lontano eroe culturale ha trovato schiere di emuli, e in un'epoca in cui l'uso delle armi è (per lo più) bandito dai rapporti individuali, le aggressioni verbali sono diventate la norma. Ci si insulta tutti e dappertutto, ai quattro angoli del globo. Un rapporto dettagliato è fornito ogni due anni da Maledicta. The International Journal of Verbal Aggression, una rivista edita a San Francisco di cui è appena uscita la decima edizione: migliaia e migliaia di imprecazioni, blasfemie, oscenità catalogate con cura e suddivise per aree geografiche da Reinhold Aman, americano di Santa Monica con origini bavaresi, laureato in linguaggio medievale, che da 26 anni (16 ore il giorno, sette giorni la settimana) studia le parolacce. «Non sono una prerogativa delle classi più povere e incolte - sottolinea -. In America la tendenza degli ultimi anni è l'estensione del fenomeno alle donne, soprattutto a quelle in carriera». Nessuno è immune. Neppure i giapponesi, che sotto questo aspetto erano sempre stati considerati carenti; e invece rivelano una particolare propensione per i termini collegati alla sfera sessuale e alla scatologia. Se andate a Tbilisi, in Georgia, potrete sentirvi apostrofare con un ringhioso «Mamajaglo» (figlio d'un cane»: e chi sa quanti ne ha usati in questi giorni il deposto tiranno Gamsakurdia). Un africano facilmente vi insulterà con un ragionamento sulla vostra famiglia, mentre un cattolico o un musulmano faranno ricorso a Dio e ai santi. I popoli mediterranei vanno forte con il sesso e con le parentele, specialmente quelle dubbie. I tedeschi sono fissati con le faccende anali. Il sesso e gli escrementi ossessionano inglesi e americani. Scriveva Leopardi (Pensiero LVII) che «gli uomini si vergognano non delle ingiurie che fanno, ma di quelle che ricevono. Però ad ottenere che gl'ingiuriatori si vergognino, non v'è altra via che di rendere loro il cambio». Ma siccome in questo mare maleodorante il naufragar non è dolce, conviene rivolgersi a quell'arte più fantasiosa e meno oscena di insultarsi messa a punto dagli ebrei d'Europa in oltre due millenni di compulsione politica. «Essendo privi di armi, invece di darsi all'aggressione fisica erano costretti &• combatte- re con le parole», dice Aman l'insultologo, che per i «maledicta» yiddish ha un debole. Ne cita più di duemila. «Che tu possa fare la fine della cipolla» (che sta sotto terra: in sostanza, «crepa»; ma quanta soave perfìdia nel modo allusivo). «Che tu possa diventare famoso: diano il tuo nome a una malattia» (ossia: «Ti venga un accidente»). E sulla stessa linea: «Che tu possa ereditare un carico di oro e non ti basti per pagare gli onorari dei medici»; «Che le tue ossa possano essere infrante più spesso dei dieci comandamenti»; «Che possano circoncidere tuo figlio e buttare via la parte sbagliata». In Italia ci si insulta per strada, allo stadio, in televisione. Dalle prime scorribande di Benigni all'Altra domenica, dal primo «cazzo» calato da Zavattini attraverso i microfoni della radio, alla fine degli Anni 70, tutte le parti del corpo umano (e connesse funzioni) sono scorse sotto i ponti della tv. L'improperio fa spettacolo e garantisce il successo: lo sa bene Sgarbi, che a un Costanzo show dell'89 al grido di «stronza» (rivolto a una preside-poetessa che gli dava dell'«asino») inaugurò la sua fulminante carriera di vituperatore televisivo. E in un passaggio di qualche tempo fa a Mixer cultura i poeti Aldo Busi e Dario Bellezza non hanno perso l'occasione di farsi un po' di pubblicità con un'aulica rissa a colpi di «checca» e affini. E' un'epidemia, un'affermazione esistenziale: «insulto ergo sum», come suona il sottotitolo di uno spettacolo messo in scena nelle scorse settimane al Flaiano di Roma da Bruno Maccallini, Esercizi d'insulto, che prende di mira le quotidiane cadute di stile. Fonte inesauribile di epiteti resta la politica, dal «Cagoja» coniato da D'Annunzio per Giolitti e dall'«Escremenzio Nenni» dell'«uomo qualunque» Giannini, fino alla Lega di Bossi che «ce l'ha duro». Con l'insulto si legifera («becchino», «carogna», «zombie», «coglione», «faccia di merda», «pirla»: sono fra le onorevoli amenità più udite in Parlamento); si governa (chi non ricorda la rissa ministeriale fra la «comare» Andreatta e il «trafelato commercialista» Formica, che nel novembre '82 affondò definitivamente il secondo gabinetto Spadolini?); si presiede (il Pre- sidente della Repubblica, presidente del Consiglio superiore della magistratura, che se la prende con il vicepresidente Galloni «demagogo eversore»; i magistrati pacifisti «vigliacchi, sleali, saccenti»; il vicepresidente de della Camera Michele Zolla «analfabeta di ritorno»; e via picconando). Anche l'Italia ha il suo insultologo. E' Gianfranco Lotti, che due anni fa ha pubblicato da Mondadori un Dizionario degli insulti con oltre duemila lemmi. Adesso lavora a un nuovo vocabolario gergale: «I più produttivi sono i giovani: non gli studenti del classico, come una volta, ma quelli degli istituti tecnici. Ci sono molti meridionalismi, il lessico si impoverisce, però c'è una maggior capacità di osare, inventare, colorire, diramare un linguaggio». Si «osa» ancora molto con il nome di Dio, specialmente nelle campagne. Lo afferma Luciano Lineette direttore della casa editrice II Carroccio da anni impegnata contro la blasfemia: «In Italia si bestemmia più che altrove, anche gli immigrati dal Terzo Mondo lo notano, ne sono più colpiti che dal razzismo». Ma forse oggi non sono queste le vere parolacce. L'imprecazione tende a infrangere un tabù: ora che il sesso non è più tale, e il senso del sacro si è indebolito, il nuovo tabù è un altro, è la salute. E l'ingiuria più crudele, più sferzante, più attuale è «handicappato». Tanto che questo termine, nato come eufemismo, si è caricato di una connotazione così insultante da essere ormai sostituito con l'anodino «portatore di handicap». Maurizio Assalto c - Invettive, oscenità, blasfemie: è diventata un'affermazione esistenziale. In alto, il linguista Tullio De Mauro e Roberto Benigni disegno è di Steinberg J i/>frlitLC— Chi non insulta è perduto Invettive, oscenità, blasfemie: è diventata un'affermazione esistenziale. In alto, il linguista Tullio De Mauro e Roberto Benigni disegno è di Steinberg

Luoghi citati: America, Europa, Georgia, Italia, Roma, San Francisco