La cantante fa un do di petto

La cantante fa un do di petto L'anarchia degli accenti La cantante fa un do di petto E' da rallegrarsi che, in I un momento di semiaI marchia ortografica (in 1 i Francia c'è una guerra in Allatto), la classe di una terza media di Torino si rivolga a noi per chiedere la ragione della presenza di dò, prima persona del verbo dare, accentato, nel nostro giornale, mentre tale grafìa viene addebitata come grave errore ortografico a scuola. Testualmente nella lettera si dice: «I monosillabi devono avere l'accento solo quando possono essere confusi con altro termine (egli dà in rapporto alla preposizione da)». Tale principio generale è quello espresso in molte grammatiche e trova, per così dire, una codificazione nel «Dizionario linguistico moderno» di Aldo Gabrielli, la cui seconda edizione, che si trova fra i miei libri, è del 1956. Tuttavia, il Gabrielli dice: «Si usa accentare la forma del presente indicativo dò, dai, dà, danno, e aggiunge: «ma in un contesto l'equivoco sarebbe raramente possibile». Ed infatti le note musicali, come è notato nella lettera della classe della terza media, «si sottraggono alla regola». Di qui la persuasione che do, voce del verbo dare si scriva come do, nome della nota musicale. Perché, tuttavia, non si sia applicato un criterio di distinzione alle note musicali che hanno anche un altro significato e particolarmente a fa che è, oltre al nome di una nota, terza persona del verbo fare, non è chiaro. Evidentemente non si è ritenuto rilevante porre l'accento per la distinzione del senso, tanto è vero che anche dò, voce del verbo dare, sta perdendo o, per molti, ha già perso l'accento. Avviene così che il «Grande Dizionario della lingua italiana» di Battaglia dia le seguenti grafie: do, dai, dà, diamo, date, danno ed altrettanto fa il Garzanti in cui troviamo, però, qualcosa di più interessante: io do, tu dai, egli dà (scritto accentato), noi diamo, voi date, essi danno (anche danno)». Le ultime due parole fra parentesi (anche danno) sono molto significative. Ma perché non c'è (anche dò) o (anche dai), visto che dai è anche preposizione articolata e per dà c'è addirittura la prescrizione di scriverlo accentato? Come si vede, c'è parecchia contraddizione in tutto questo. Alcuni ritengono necessario distinguere fra due parole omofone, altri no. Fra questi ultimi ci sono anche, sia pure per un problema affine a questo, Giulio e Laura Lepschy, autori di un'ardita Grammatica italiana che, dopo aver spiegato bene la norma tradizionale, la accompagnano con osservazioni molto pertinenti su e ed o, che possono, secondo l'uso toscano, essere aperte o chiuse, con mutamento di senso (légge sost.: lègge, voce del verbo leggere); vénti, il numerale: vènti plurale di vènto; corrèsse da correre: corrèsse da correggere; pésca il pescare: pèsca, nome di un frutto; affètto da affettare: affètto, sostantivo, ecc.) e si di¬ chiarano scettici sull'opportunità di distinguere voci che si caratterizzano, al modo toscano, con l'apertura e la chiusura delle vocali. Al fondamento di quest'atteggiamento vi è la grande diffusione dell'italiano in masse sempre maggiori di parlanti, soprattutto ad opera dei grandi mezzi di comunicazione di massa che porta ad un appannamento di certe distinzioni ed all'accoglimento di pronunzie regionali. Certo, molti dicono che basta intendersi ma occorre pur sempre che ci sia un mezzo per intendersi e che questo non sia un anarchico coacervo di modi di parlare del tutto fuori strada. Temo molto di aver deluso i ragazzi della terza classe che ci hanno interpellato. Essi credono ad una norma linguistica molto rigida da far valere in tutti i casi. Non vorrei, però, che si dessero brutti voti anche ad uno dei massimi scrittori italiani di questo secolo, Riccardo Bacchetti, che scriveva sé stesso con tanto di se accentato mentre si consigliava, ed ancora si consiglia, di scrivere sé con l'accento quando è solo ma senza accento quando è seguito da stesso o medesimo. Il linguista di professione tende a fornire, quando è possibile, le cause dei fenomeni che si presentano e non ha, in generale, posizioni rigide; solo interviene quando gli pare che la ragione o il buon gusto siano gravemente offesi. Personalmente, nel caso in questione, permetterei di scrivere sia dò, come voce del verbo dare, sia do, che pare ormai avere il sopravvento, senza, però, che sia stato eliminato dà che, a quanto pare, resiste bene, mentre danno, rispetto a danno è in pericolo. Ma là dove, secondo me, si dovrebbe agire è nel deprecare, perché è al di là della decenza, che si scriva si in luogo di sì avverbio, che si presenta anche in scritte pubblicitarie alla televisione. Nel campo degli accenti sarebbe poi opportuno fare un po' più uso di questo piccolo segno ortografico in parole contrapposte proprio dalla diversa posizione dell'accento come altero: altèro; àmbito: ambito; àncora: ancóra; àuspici: auspici; benèfici: benefici; circùito: circuito; malèfici: malefici; pànico: panico; predico: predico; prìncipi: princìpi; rètina: retina; rubino: rubino; séguito: seguito; sùbito: subito, ecc. In questo caso sarebbe bene mettere l'accento sulle sdrucciole: altero, àncora, ecc. lasciando le piane senza accento. Con queste osservazioni vorrei farmi perdonare dai ragazzi della terza media torinese, ai quali non sarò sembrato abbastanza drastico nella questione di do e dò. Ricordino, invece, quei ragazzi, che la posizione dell'accento caratterizza fortemente l'italiano rispetto ad altre lingue: e basterà pensare al francese, in cui tutte le parole hanno l'accento sull'ultima sillaba tanto che là mi chiamano Boi e lì. Tristano Bolelli o, sostantivo, ecc.) e si di¬ Tristano B

Persone citate: Aldo Gabrielli, Battaglia, Gabrielli, Laura Lepschy, Riccardo Bacchetti, Tristano, Tristano Bolelli

Luoghi citati: Francia, Torino