Il buon Colombo tra i cannibali

Il buon Colombo tra i cannibali Non ha distrutto un «paradiso»: dopo i primi furori ideologici, l'America rivaluta il navigatore Il buon Colombo tra i cannibali NEW YORK UANDO Hernàn Cortes, il conquistatore spagnolo del Messico, riuscì finalmente a penetrare nella città di Tenochlitan, capitale dell'impero azteco, fu testimone di uno spettacolo orrendo. Alcuni soldati spagnoli, catturati dai guerrieri aztechi, venivano trascinati sulla grande piramide centrale del tempio del dio Huitzilopochtli e trucidati in una cerimonia sacrificale che fu poi minuziosamente descritta da Bernal Diaz del Castillo, il cronista della spedizione. Bernal Diaz racconta che i sacerdoti indiani squartavano il torace degli spagnoli con un nero coltello di ossidiana (una pietra vulcanica dura e tagliente), ne estraevano il cuore e lo offrivano, ancora palpitante, ai loro dei. I corpi delle vittime venivano poi gettati lungo la scalinata per essere decapitati e fatti a pezzi. Gli arti erano destinati a cerimonie di cannibahsmo rituale, mentre il tronco e i visceri venivano dati in pasto ad animali. La pelle, compresa la barba del volto, era il trofeo dato in premio ai guerrieri che avevano catturato i soldati nemici. Questa descrizione è conosciuta da secoli, perché il libro di Bernal Diaz, La vera storia della conquista del Messico, (in italiano, con il titolo La conquista del Messico, nei tascabili Tea) fu pubblicato postumo nel 1632. Così come è ben noto agli studiosi che i sacrifici umani e il cannibahsmo erano il più truce connotato della religione azteca, tutta fondata sulla sottomissione degli uomini a divinità voraci e dissolute, che andavano nutrite con sangue umano affinché producessero ogni giorno l'energia necessaria per far risorgere il sole dalle tenebre. Perché dunque, e proprio ora, si torna a parlare di questi riti cruenti? La risposta ha a che fare con le celebrazioni del quinto centenario della «scoperta» dell'America, o meglio di quello che viene ora definito «the encounten> (l'incontro) tra la civiltà europea e quella dei nativi americani. Approssimandosi il 12 ottobre, giorno dell'anniversario, va segnalata la pubblicazione di libri e articoli che affrontano con più coraggio e con maggiore serietà intellettuale il tema del contrasto, e diciamo pure dell'inconciliabilità, tra le due culture così come si fronteggiarono nel 1492 e nei decenni successivi della conquista europea del continente. Lo scorso anno giornali e librerie furono inondati di scritti che rimettevano in discussione l'opportunità di celebrare l'impresa di Cristoforo Colombo. Dietro gli scritti spesso si profilava una manovra politica. Un composito movimento a cui facevano capo le superstiti tribù indiane del continente, i gruppi ecologici, militanti della comunità nera, gli intellettuali di una sinistra che in America pare più sbandata che altrove, additava Colombo come l'alfiere ed il simbolo della colonizzazione, del genocidio e, più in generale, di quell'eurocentrismo che fino ad oggi ha dominato la cultura americana. La mobilitazione ha avuto concreti e visibili effetti. Ha reso più cauti i politici nella scelta delle parole e nell'enfasi da riservare alle cerimonie del quinto centenario; e poi ha offuscato, e quasi cancellato, la figura di Colombo in molte iniziative culturali. Per esempio nella grande mostra di Washington intitolata «Circa 1492» il grande genovese risulta quasi del tutto assente. Solo uno dei 569 oggetti esposti si riferisce aU'ammiraglio, il cui nome - nelle didascalie lungo i muri del museo - viene citato solo due volte, una delle quali come Columbus, capitale dell'Ohio. Ora si può dire che mentre appariva fondata la denuncia dei massacri e delle distruzioni che accompagnarono l'invasione europea del nuovo continente (benché fosse ingiusto addossarne ogni colpa a Cristoforo Colombo), era assai meno convincente l'altro cardine ideologico sul quale si fonda la protesta anti-colombiana, e cioè la certezza che l'America, prima di Colombo, fosse una sorta di paradiso terrestre, abitato da creature buone, gentili, generose e civilissime. Il teorico di questa scuola di pensiero è l'ecologista Kirkpatrick Sale, del quale segnalammo lo scorso anno un libro il cui titolo dice tutto: The conquest of Paradise. In quella che è diventata ormai la bibbia degli avversari delle celebrazioni, Colombo viene presentato come un ottuso e crudele conquistatore, mentre le società indigene vengono descritte come mansuete, pacifiche, capaci di vivere in un sacro e armonioso rapporto con la natura. Ben vengano allora gli scritti che ci rammentano quanto sia ambigua la storia e quanto sia complessa la verità. Chi ripropone un'analisi dei truci riti aztechi (della società che comunque era la più avanzata e stratificata nel continente americano) non vuol certo sostenere che il popolo che li praticava meritasse la fine che ha fatto. Ma vuole capirne di più, anche a costo di abbattere l'arcadia fasulla eretta da Kirkpatrick Sale e dai suoi seguaci; e soprattutto intende mantenere ben distante le scienze storiche dalla politica etnica che travaglia oggi la società americana. Il vantaggio vero - e diciamo pure la grandezza - della civiltà europea è di avere essa stessa denunciato le proprie malefatte: gli orrori e le infamie che Kirkpatrick Sale racconta nel suo libro, le ha trovate nelle cronache di Bartolomé de Las Casas, che fu tra i compagni di Colombo nel secondo viaggio e poi si fece frate e divenne il paladino degli indios. Dunque non bisogna scandalizzarsi se l'etnologa Inga Clendinen (in Aztecs: an interpretation, pubblicato dalla Cambridge Press) sostiene che i sacrifici umani descritti da Bernal Diaz non erano un atto di resistenza armata alla conquista spagnola, ma la ragione stessa dell'espansione dell'impero azteco, prima ancora dell'arrivo degli spagnoli: le guerre condotte contro i popoli vicini non miravano alla conquista del territorio ma alla cattura di uomini da sacrificare all'insaziabile ingordigia degli dei. Gli scavi archeologici e la rilettura delle testimonianze degli indigeni messicani raccolte nel sedicesimo secolo dimostrano che ad ogni battaglia seguiva lo scanna- mento di migliaia di prigionieri. E si capisce che Hernàn Cortes sia riuscito agevolmente a procurarsi l'alleanza di altri popoli e tribù indiane nella spedizione finale contro la capitale azteca. La Clendinen va più in là e azzarda le tesi che l'etica guerriera accomunasse gli aztechi ad altri popoli americani, comprese le tribù delle grandi pianure del Nord (i Crow, i Seneca, gli Huron, i Sioux). Quanto alla pratica dei sacrifìci umani e del cannibalismo rituale, essa si era sicuramente estesa ad altre civiltà del Centro e del Sud America, ivi inclusi i Caraibi nei quali approdò Colombo nel 1492. Altro che continente placido e tranquillo: l'America precolombiana era sconvolta da guerre e massacri, con il corollario di continue trasmigrazioni. I pacifici Tainos, i primi indiani incontrati da Cristoforo Colombo, si erano insediati nelle isole caraibiche dopo averne espulso gli indigeni e stavano a loro volta per esserne cacciati dai più aggressivi e tenaci Caribe, dal cui nome, malpronunciato dagli spagnoli, deriva la parola «cannibale». Simili verità, che di per sé non sono più scandalose della cupidigia o del fanatismo messianico dei conquistatori europei, mettono in imbarazzo una cultura politica, quella del movimento anticolombiano, che vorrebbe addomesticare la storia. Per esempio, in una raccolta di saggi sulle società precolombiane -America in 1492, pubblicata da Kopf - il curatore del libro, Alvin Josephy, afferma disinvoltamente non solo che le civiltà precolombiame «ben prima dell'Ihuminismo europeo, avevano riconosciuto la dignità, il valore e la libertà dell'individuo», ma nega ogni credito alla tesi del cannibalismo dei Caribe: «Si tratta di voci infondate basate su racconti che Colombo ascoltava dagli Arawak (cioè dai Tainos), che erano nemici dei Caribe». Ma senza scomodare altri studiosi, basta sfogliare il libro in questione ed a pagina 196, in un saggio di Louis Faron (professore emerito di antropologia alla State University di New York), si legge che le voci sono state senza dubbio esagerate e distorte dagli europei, ma che la pratica del cannibalismo è innegabile: «I Tupinamba ed altri popoli, come i Caribe e i Cubeos, mangiavano la carne umana in un atto rituale che era parte della loro credenza nella consustanziazione». Alvin Josephy, sdegnoso custode dell'utopia precolombiana, non si è preoccupato di leggere il libro che dice di aver curato e del quale ha scritto la prefazione. Mancano meno di nove mesi alla data del 12 ottobre. E' rimasto poco tempo per accantonare le dispute ideologiche che stanno avvelenando l'anniversario colombiano. Ma qualcuno ci prova. Bisognerebbe forse mettere da parte la fonte stessa del contrasto, che è la concezione secondo la quale la scoperta dell'America segna nella storia umana «l'avvento della modernità»: su questa affermazione concordano sia gli esaltatori che i detrattori di Colombo, con la differenza che i primi apprezzano la modernità mentre i secondi la detestano. E dunque la polemica intorno all'impresa di Colombo è in verità una polemica sul destino del mondo, che per gli uni progredisce incessantemente e per gli altri procede verso l'abisso. In un saggio apparso sulla rivista The new Republic, lo storico Simon Chama (docente ad Harvard) dice - in polemica tra gli altri con Paolo Emilio Taviani - che Cristoforo Colombo è più uomo del Medio Evo che uomo del Rinascimento: la sua fede messianica surrogava la debolezza dei calcoli astronomici sui quali impostò il suo viaggio. Se ci si libera dalla retorica del Colombo «rinascimentale», del Colombo «modernizzatore», si può vedere rincontro-scontro tra due civiltà in una luce più reale, che poi è la luce del secolo nel quale tutto ciò avvenne. Nell'atroce storia di Tenochlitan, nella battaglia finale tra aztechi e spagnoli, è vano stabilire chi avesse ragione o torto, chi fosse il buono e chi il cattivo. Secondo il professor Chama, in quel luogo terribile e magnifico, una cultura bellicosa e sacrificale affrontò una cultura altrettanto assolutista ed aggressiva, un dispotismo fu distrutto da un altro dispotismo, l'apocalisse azteca venne sopraffatta dall'apocalisse cattolica. In un libro di grande suggestione, Marvellous possessians (ovvero «la cattura del meraviglioso», edito dalla University of Chicago Press), Stephen Greenblatt, docente di Berkeley, sostiene una tesi non dissimile, e cioè che i due fanatismi, quello azteco e quello cattolico-spagnolo, erano incompatibili perché in qualche modo affini; e che comunque la questione del cannibalismo non ci aiuta a capire, e tantomeno a interpretare, lo scontro tra due mondi in termini di civiltà e di barbarie. In questo giudizio, Greenblatt si rifa ad un celebre saggio di Michel de Montaigne (il capitolo XXXI del primo libro, Dei cannibali, scritto mezzo secolo dopo la conquista del Messico), nel quale il grande scettico francese svuota dalle fondamenta la disputa sulle barbarie dei popoli: «Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell'arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto». Gaetano Scardocchia -et' ;>v#^^>;>^*^^= Indios sanguinari e sacrifici umani: fu uno scontro fra due «barbarie» g| B M Hernàn Cortes, conquistatore dei Messico, raffigurato in un'incisione antica mentre riceve in dono giovani schiave. Nell'immagine grande, Colombo assiste a un'esecuzione di ribelli