LE COLPE DEL FASTBOOK

LE COLPE DEL FASTBOOK LE COLPE DEL FASTBOOK Berardinelli e il dibattito sulVautostroncatura «Accuso gli editori: sono schiavi della fretta» ~|B ^^ON credevo (e spero I^B I di essere creduto) che I^H I dopo l'esperienza di I I pubblicare un libro I impresentabile come I ^Bl i Cento poeti,.Monda dori, avrei fatto un'altra esperienza I inattesa: quella di cs- vi sere considerato, anche da conoscenti e vecchi amici, come diabolico stratega dell'autopromozione. Semplicemente avrei escogitato la nuova e più efficace arma segreta della pubblicità per me stesso. Bella forza stroncarsi! Ma siamo seri! Diciamo la verità: siamo sempre colmi di gioia, di fierezza e di gratitudine quando finalmente riusciamo a pubblicare qualcosa! Essere pubblicati, solo di per sé, viene considerata una tale festa che guai a lasciarsi sfuggire una sola increspatura di dubbio. Da un lato gli scontenti col marchio di fabbrica, gli apocalittici da vetrina, condannati a ripetere sempre lo stesso verso e la stessa smorfia di disgusto. Dall'altro, gli allucinati militanti del buonumore, costruttivi e affermativi, gli invasati del «sì» che per scaramanzia non nominano la pioggia neppure quando ci sono sotto, fradici dalla testa ai piedi. Possibile che nell'editoria le cose vadano sempre male o sempre bene? Non si potrebbe, per favore, sentire ogni tanto anche la voce dei diretti interessati, cioè degli autori? E i traduttori che dicono? E i grafici come sono costretti a lavorare? C'è ancora nelle case editrici un momento di tempo per uno scambio di opinioni, in tutta sincerità e concretezza, fra direttori, redattori e autori di libri? La macchina, una volta avviata, se va contro un muro, si può fermare? Non sono molto esperto di lavoro editoriale. Se lo fossi stato, non avrei dovuto sperare che i competenti nella confezione del libro fossero più affidabili di un incompetente come me. Ora sono quasi certo di una cosa che già da tempo sospettavo: e cioè che gli esperti nell'immagine, i professionisti dello styling, hanno spesso cattivi gusti come chiunque altro. E come chiunque altro mancano di buon senso. Come ho fatto a non capire subito, vista la prova della copertina, che affidare a qualcuno di ridisegnare cento facce di poeti sarebbe stata una follia? A me è andata particolarmente male, perché sono venute fuori quasi tutte brutte. Ma anche in un caso migliore, almeno la metà sarebbero state mediocri. Lo squallore era inevitabile. Vorrei sapere quanti giorni ha avuto il grafico per fare quella fatica. Il guaio è che la forma del mio articolo (l'autostroncatura) ha calamitato completamente l'attenzione e nessuno ha dato im- portanza al contenuto. Va bene, ho parlato male di un mio libro: apparentemente in modo paradossale; in sostanza del tutto sinceramente. Forse però, oltre che alla forma dell'autostroncatura, si poteva dare un'occhiata a qualcuno degli argomenti che usavo. Nelle reazioni esagerate che ho visto sulla stampa, almeno tre mi sono sembrate le cose notevoli e curiose: 1) Nessuno ha preso alla lettera quello che dicevo. L'importante non è il senso delle parole e delle frasi, ma sempre quello che «c'è dietro» (loschi traffici, ingegnose furbizie). Puoi dire quello che vuoi. Nessuno lo nota. Tutti invece si chiedono che brutte intenzioni hai. Il processo è sempre alle intenzioni, non alle affermazioni. Il nostro mondo culturale è pieno di gente furbissima a interpretare gli innumerevoli piani nascosti del significato. Ma il primo significato delle parole, quello letterale, nessuno lo capisce. 2) Nessuno si è presa la pena (in effetti la considerò tale) di risalire dal mio discorso alla «cosa» di cui il discorso parla. Se qualcuno avesse preso in mano quel libro, sono sicuro che lo avrebbe trovato più brutto, meno brutto o altrettanto brutto come io lo giudicavo. Ma molti mi avrebbero dato abbastanza ragione. Anche il giornalismo culturale sarebbe bene che diventasse un po' meno discorso sul discorso e un po' più curiosità di andare a vedere le cose di cui si dibatte, con tanto spreco di sottigliezza. 3) C'è poi lo scarso interesse che a quanto pare suscita lo stato del lavoro editoriale. Come ho già detto, non sono un esperto di editoria. A maggior ragione, però, ho sentito il bisogno di parlare di una cosa che era capitata a me. Di che cosa dovremmo essere competenti, se non delle cose che ci succedono? Il mio brutto libro non è che uno dei sintomi innumerevoli di peggioramento della cura con cui si fanno i libri. Ho il sospetto che chi fa i libri, soprattutto dentro aziende nelle quali la divisione del lavoro e delle responsabilità è assai avanzata, non creda molto nei libri. Si crede sempre più nell'involucro, nell'immagine. Infine, libri e riviste si vendono molto solo se ne parla la televisione. Come è stato detto giustamente, molti libri che escono sono soltanto dei sottoprodotti o delle repliche di roba televisiva. Leggere libri è impegnativo. E quindi il libro è una merce che fa paura. Alcuni credono che per venderlo meglio bisogna farlo passare per quello che non è. Continuo a preferire quegli editori che non stanno troppo a risolvere l'indovinello del mercato che un libro può avere, e che sanno che i libri, prima che essere stampati con cura, devono probabilmente essere anche concepiti, elaborati e scritti da qualcuno. Una faccenda lunga, lenta, a volte esasperante. Ma nella produzione di libri la fretta è una consigliera cattiva. Io ho fatto la triste esperienza di farmi trascinare dalla fretta. '2 vi posso assicurare (vedere | ?r credere) che il risultato è deprimente per tutti. Alfonso Berardinelli «I libri sono diventati sottoprodotti della televisione»

Persone citate: Alfonso Berardinelli, Berardinelli, Monda