Funi un futurista che guardò all'antico di Angelo Dragone
Funi, un futurista che guardò all'antico A Milano 119 opere con qualche inedito Funi, un futurista che guardò all'antico PMILANO OCO meno di vent'anni fa, nel luglio del 1972, scomparve, ottanta I duenne, ad Appiano Gentile, Achille Funi, ferrarese di origine, «operaio sognatore» per de Chirico che intendeva alludere, così, alla sua attività nell'«affresco», tecnica di cui fu anche appassionato insegnante a Brera. Il corso era facoltativo (con un'intricata vicenda circa la nomina «senza concorso» e con «dispensa del periodo di prova»), ma fu subito ben frequentato: tra gli allievi v'erano Ajmone e Morlotti, Crippa, Giunni e Dova, con Valerio Adami, Peverelli, Forgioli e i tre «cinetici»: Grazia Varisco, Boriarti eGianni Colombo. Una vera e propria «scuola» - in parallelo con quella dovuta al magistero anche morale di Carpi - e giustamente, nel 1988, il museo di Mendrisio le dedicò un'intera mostra che faceva seguito all'antologica del maestro ordinata l'anno prima ad Iseo, con un'ottantina di dipinti. A ricordare nuovamente Funi è ora la Provincia di Milano, con l'adesione della Regione Lombardia, cui si deve una più ampia rassegna di «dipinti, cartoni e disegni» che, in verità, si voleva allestire per il centenario della nascita, nel '90. Sono centodiciannove le opere che, fino al 16 febbraio, rimarranno esposte in quel singolare scrigno di cultura rinascimentale ch'è Palazzo Bagatti-Valsecchi, al numero 10 di via Santo Spirito, breve e silenziosa strada, nel cuore della città, tra via della Spiga e la più celebre via Montenapoleone. Una sede ben meritevole almeno d'un cenno: per rammentare come oltre un secolo fa, nel 1883, i fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti-Valsecchi - quarantenne il primo, due anni in meno l'altro - dopo il più accurato restauro, ne avessero fatto la loro dimora di gusto squisitamente rinascimentale, inaugurandola con un favoloso ballo in costume. Di questa casa, colma d'oltre duemila oggetti, spesso molto belli e rari, come aveva spiegato Giuseppe Bagatti, non s'era «voluto fare un museo o una collezione, bensì la ricostruzione di un'abitazione signorile della metà del Cinquecento, onde gli oggetti del XV e XVI secolo, dei generi più svariati, raccolti con studio accurato e restituiti al loro uso originario». Sfondo ideale, dunque, per la mostra commemorativa di un pittore che, dopo aver segnato con l'avventura futurista la propria aspirazione al moderno (fino a firmare nel '20, con Russolo, Dudreville e Sironi, il manifesto Contro tutti i ritomi in pittura), non aveva esitato a guardare all'antico. Al pari d'altri esponenti del Novecento che s'erano rifatti, come Carrà a Giotto o Casorati a Piero della Francesca, Funi s'ispirò a Raffaello e addirittura alla pittura pompeiana; anche se il più prossimo suo Raffaello è riconoscibile piuttosto in Mengs. Scelte dal comitato scientifico (Raffaele De Grada, Rossana Bossaglia, Luigi e Nicoletta Colombo), le opere proposte, illustrate tutte in catalogo (Vangelista ed.), ne riassumono il diramato itinerario. Si muove dal quasi-preambolo futurista, tra 1913 e '14 (con Margherita, Figura in scala cromatica e soprattuto II motociclista), ma già durante la guerra quegli umori s'erano stemperati in dipinti in cui poteva assistersi ad un contemporaneo ricupero sul versante di Cézanne (Bimbe alla finestra e Figure e luce) per approdare infine alle rassodate forme cromatiche nelle quali, tra classicismo e neoclassicismo, s'annuncia la variegata partecipazione al «Novecento». Vi sono memorie di Gino Rossi in Eva (1919), mentre Matematico è già nella poetica delr«antigrazioso». Chiaro si fa l'accento metafisico nei ritratti e autoritratti dei primi Anni 20, mentre fin da principio incalzava un autentico senso narrativo: «La pittura di storie, come quelle», per dirla con Raffaele De Grada, «che l'avevano incantato fin da adolescente sulle pareti del Palazzo di Schifanoia». Non per questo Funi si negò ai simboli antichi e al mito, come nel metafisicheggiante Venere e satiro (1920), cui non fu forse estraneo neppure Oppi, e più tardi nel michelangiolismo di Rebecca (1929). Fin dal 1922 Funi aveva fatto parte (con Bucci, Dudreville, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi) del «gruppo dei sette» che, costituito a Milano con l'appoggio di Margherita Sai-fatti, aveva visivamente annunciato il «Novecento» nella galleria di Lino Pesaro e fin dal '24 alla Biennale di Venezia; allargando subito dopo il campo con la prima mostra del Novecento Italiano (alla «Permanente» di Milano) che aveva coinvolto un po' tutti, da Morandi a de Pisis, da Casorati e da Campigli a Soffici e Guidi. Funi vi rappresentò, soprattutto con le sue decorazioni murali, lo spirito della continuità e il bisogno di raccontare la «Storia» sulle più vaste pareti affrescate: dai Giochi atletici italiani della V Triennale al Mito di Ferrara, con l'intima esigenza di sentirsi «in grado di tornare ad essere maestri di espressione, nel senso - aggiungeva - che il mondo della nostra realtà non possa sfuggire al magistero delle nostre linee e dei nostri colori». Angelo Dragone Un dipinto di Achille Funi esposto a Milano: «Bimbe alla finestra» (1915)
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