Wiesel grida contro l'oblio di Barbara Spinelli

Wiesel grida contro l'oblio Il Giobbe dello scrittore ebreo Wiesel grida contro l'oblio E LHANAN Rosenbaum, il protagonista di Loblio, il romanzo che Elie Wiesel ha scritto nell'89, ora tradotto da Bompiani, contrae in vecchiaia una malattia crudele: tutto quello che ha vissuto - genocidio del suo popolo e resistenza, rinascita d'Israele e vita a New York - piano piano diserterà la sua memoria, non lascerà più tracce, sarà spazzato via come polvere dal vento. Di Elhanan resteranno braci spente, che nessun soffio potrà riaccendere, stracci di ricordi, e la disperazione delle ultime ore di coscienza: perché tanto castigo su di me, che ho osservato le Leggi? E come obbedire in queste condizioni alla più imperiosa di esse, che mi impone di ricordare, di testimoniare? Zachor, ordina l'Antico Testamento al proprio popolo, ogni volta che esso è tentato dall'oblio: «Ricorda tutti i giorni della tua vita come sei fuggito dall'Egitto», come ricevesti le Leggi nel deserto, come Dio strìnse con te il patto d'alleanza. Proprio questo l'ebreo Elhanan non potrà più: rammemorare. Forse dimenticherà financo chi è, e il Dio a cui ha promesso fedeltà, il giorno che il morbo avrà steso la sua nera coperta sull'intero cervello. E' a questo punto che interviene Malkiel, il figlio. Sarà lui a raccogliere, in eredità, la memoria che sta fuggendo dal padre. Lui ritornerà nel villaggio carpatico dove sono sepolti i segreti di infanzia di Elhanan, e i suoi peccati. Il villaggio è ora nella Romania comunista (Ceausescu non è ancora caduto, quando Wiesel scrive) e Malkiel traversa il Paese senza capire nulla del presente, senza interrogarsi su di esso. E' immerso nel passato del padre, da quest'ultimo ha avuto l'ordine di racimolare ricordi per trasmetterli poi a chi li sta perdendo. «Ciò che lui ha nascosto in se stesso, io lo rivelerò. Testimonierò al suo posto. Spetta al figlio non lasciar morire il padre». 1 ruoli progressivamente si rovesciano: non il padre narrerà al figlio la storia del mondo, ma il figlio al padre. La catena delle generazioni non si spezzerà perché il padre genera il figlio e il figlio ri-genera il padre. Il mistero della memoria, dell'oblio, della morte: è la stoffa del romanzo di Wiesel, della sua personale esperienza di scampato al genocidio. E la malattia del padre di Malkiel non è solo fisica, ma anche metafisica: è la sofferenza di Giobbe, che ritiene ingiustificato il castigo che subisce. E' l'orrore di fronte al destino che Dio ha riservato agli uomini: non poter concepire che il nulla, nell'aldilà dello Shéol; esser sradicati come alberi dalla vita, senza la speranza di rigermogliare che perfino gli alberi hanno ricevuto in dono. «Così tu schianti la speranza dell'uomo - grida Giobbe a Dio - tu lo stringi con forza, e per sempre se ne va. Tu lo sfiguri e lo sbatti via. La gloria dei suoi figli ignorerà. Se sono infami non saprà niente. E la sua carne per sé si tortura, e la sua anima per sé dispera» (versi 14-20, traduzione di Ceronetti). L'angoscia è così radicale che Sergio Quinzio, nel suo ispirato Commento alla Bibbia (Adelphi) già vede nascere - nell'angoscia di Giobbe - l'ansia cristiana di un aldilà che abbia senso: «Disgregata l'unità del popolo stretto nella fedeltà al suo Dio Elie Wiesel che lo benedice, la morte di ciascuno, che prima era come dissolta nella solidarietà dell'unica stirpe, invade tutto l'orizzonte, grida al cielo, esige il rimedio eroico della resurrezione dei corpi. L'unica possibilità di significato, ormai, è lo spaventoso miracolo che oscuramente sogna la disperata speranza di Giobbe: "Perché l'Onnipotente non ha dei tempi di riserva?", "Oh, se tu mi nascondessi nello Shéol, se tu mi riparassi fino a quando sarà riparata la tua ira..."». Ma all'ebreo che contro ogni speranza messianica vuol restare fedele al proprio popolo, che cosa resta? A quale realtà luminosa può aggrapparsi, quando il Buio e la morte «invadono tutto il suo orizzonte»? Cercare una risposta non è semplice, e forse neppure è del tutto lecito dal punto di vista della fedeltà. L'ebreo ha per vocazione di domandare, incessantemente, e si ritrae, vergognoso di sé, di fronte alla risposta salvifica. Insensatamente, si piega a una spiegazione divina che non spiegherà alcunché, a un ordine cosmico che forse è spezzato forse no: non lui l'ha creato ma l'Innominabile. L'ebreo assume su di sé il «giogo» della Legge, della Torah, non già perché la Legge lo aiuterà ma perché il giogo lo soccorrerà: il mettersi al servizio di un orizzonte Altro dal suo, di un orizzonte che impedirà che «la carne si torturi solo per sé, che l'anima si disperi solo per sé». Allora, inaspettatamente, anche la notte può emanare luce. Si vive anche nelle tenebre, nella malattia, se ogni ora - compresa l'ultima - è vista come frammento di un vetro che raccoglie luce e la riverbera. Ogni gesto allora è oggetto di contemplazione, anche l'infimo, il cosiddetto insignificante, purché in esso si intuisca la scheggia dell'«altro orizzonte». Per questo i romanzi di Singer emanano tanta luce. I suoi personaggi, i suoi paesaggi sono come dipinti di Rembrandt: irradiati anche quando fa buio. Soprattutto quando fa buio. Per questo la luce è crudelmente difettosa, nel romanzo di Wiesel: la malattia di Elhanan - nonostante la buona volontà del figlio - inghiotte ogni minuto del presente, assieme al passato, ed è davvero la fine d'una «stirpe unica», il trionfo del male per sé, del naufragio «per sé», senza trascendenza. Wiesel vede il pericolo che minaccia il proprio popolo la perdita di memoria collettiva ma non sa opporle che il dramma psicologico-individualistico di un difficile rapporto fra padre e figlio. Wiesel sa lamentare, gridare, ma gli manca il sorriso, l'infinita pietà, l'ironia di Singer. Gli manca la preghiera che permette l'ironia in mezzo al pianto, l'amore d'ogni attimo del quotidiano in mezzo alle sventure, la preghiera che Elihù insegna a Giobbe (35-9): «Tra le violenze scatenate gli uomini gridano. Nella stretta dei potenti gemono. Ma nessuno dice: - Il Dio che ci ha creati, che dà le musiche della notte dov'è? Dov'è chi ci ammaestra sopra le bestie della terra, e ci rende savi sopra gli uccelli del cielo? - Gridano gli uomini, ed egli non risponde a causa della superbia dei malvagi. Inutile! Dio non ascolta la vanità, l'Onnipotente non ci bada». Barbara Spinelli

Luoghi citati: Egitto, Israele, New York, Romania