Il triangolo della vendetta

Il triangolo della vendetta Il triangolo della vendetta SROMA ONO buste voluminose che portano l'intestazione «Divisione generale di Ps _ I Affari generali riservati», «Ministero interno gabinetto», «Segreteria particolare di De Gasperi» e sono conservate presso l'Archivio di Stato. I nomi, i luoghi, le date di quello che avvenne nel «triangolo della morte» sono conservati lì, esattamente nel posto in cui dovrebbero essere, come la lettera rubata di Poe. Consultabili da quindici anni, eppure nessuno in un anno e mezzo di roventi polemiche politiche aveva pensato di andarli a studiare. Guido Crainz, storico, ricercatore di Storia contemporanea all'università di Teramo, ha cominciato a elaborarli. Una sua prima riflessione comparirà sul prossimo numero della rivista Meridiana, ma ci anticipa i punti centrali della sua ricerca. «1 fatti che successero sono realmente impressionanti, senza paragone con quello che avvenne in altre parti d'Italia in quanto a durata. A leggere quelle carte si ricava l'impressione di un di più di ferocia; in alcuni casi una ferocia con qualche tratto di arcaico. Studio le campagne emiliane da quindici anni, sostanzialmente accantonando questo problema, e credo di capire la ragione della rimozione di tutti rispetto a questa parte della nostra storia recente». Le cifre, innanzitutto. Secondo i dati raccolti da Crainz, in Emilia Romagna, in particolare nelle province di Modena, Bologna, Reggio Emilia, Ravenna e Ferrara, gli uccisi o spariti accertati da carabinieri e polizia, dalla liberazione alla fine del 1946, sono più di seicento, i cui nomi sono indicati in un primo blocco di buste. Rapporti successivi di questori e prefetti, che talora sembrano comprendere però anche uccisioni avvenute durante il periodo dell'insurrezione, giungono al dato di duemila persone (seicento per la sola provincia di Bologna). La stragrande maggioranza delle uccisioni è collocata in ambito rurale, un lunghissimo elenco di paesi, frazioni, contrade, molto spesso le stesse che erano state teatro degli eccidi nazisti. Rarissime le rivendicazioni. Si respira il silenzio di mondi chiusi, dove non c'è bisogno di parlare per sapere. Compaiono come uccisori adolescenti che hanno avuto i genitori uccisi dai nazifascisti. L'ondata di violenza segue fasi e motivazioni differenti. La grandissima maggioranza delle uccisioni è concentrata nell'apri¬ le-maggio del '45 e ha l'aspetto di una generalizzata resa dei conti con responsabili del partito fascista, di Salò, delle Brigate nere. Nei mesi successivi si continua contro membri delle Brigate nere e repubblichini, gli ultimi fedeli a Salò che tornano dal Nord più tardi o sono liberati dal carcere o da campi di internamento alleati, per esempio quello di Coltano, vicino a Pisa. Nei primi mesi del '46 la stessa dinamica continua, ma si intreccia con uccisioni che questori e prefetti collegano a «conflitti agrari in corso». Sono documentati atti di ferocia e sevizie, in alcuni casi sequestri e. esecuzioni di intere famiglie, assalti di folla. E' segnalata l'uccisione di sacerdoti: non sono gli 83 citati pochi giorni fa da Cossiga. Sono poco più di una decina, il che non significa che siano pochi. La verità sulle cifre è questa. Lontana sia dalla ricostruzione della destra che dalla rimozione della sinistra. Per Crainz «queste uccisioni non appartengono a una resistenza intesa come liberazione nazionale - molto banalmente le vittime non sono tedeschi ed è riduttivo parlare di collaborazionisti -; non è neppure una violenza collegabile per intero a lotta di classe, perché le vittime non sono di certo solo agrari: nella Bassa emiliana si verificò "un di più" di violenza, con elementi di vera e propria guerra civile. In quegli anni si chiude - come ha osservato Claudio Pavone - una partita iniziata nel '20-22 e in quelle terre era stato più feroce lo squadrismo agrario, più feroce l'occupazione nazista, più persistente e sanguinoso il fronte della guerra. La carta geografica è importante: molte uccisioni avvengono in paesi o poderi in cui il conflitto sociale era cominciato all'inizio del secolo e aveva sedimentato memorie, odii, rancori di comunità e di famiglie, esasperati dallo squadrismo prima e dalla guerra poi». Un quadro rimasto in larga parte sconosciuto finora. Anche la rinnovata attualità del «triangolo della morte» ha prodotto moltissime sparate in libertà, ma nessuna verifica documentale, a parte lo sforzo di alcuni giovani ricercatori emiliani. Sorprende quanto siano esigue le fonti scritte disponibili: principalmente un'inchiesta condotta da Paolo Alatri per conto del pei nel '48 (un testo impegnato a confutare la campagna della destra, ma realmente problematico e sofferto). Nel 1979, in un saggio sulla Repressione antipartigiana dal 1947 al 1953, Stefania Conti riportava le cifre delle uccisioni in modo sostanzialmente esatto, sulla base delle carte d'archivio consultate ora da Crainz. Non ebbe eco. Esiste poi la pubblicistica di destra, in particolare di Pisano, secondo la quale i morti furono molte migliaia. Più vicina al quadro che emerge ora, la ricostruzione di Giorgio Bocca che interpretava i fatti a partire dalla «cultura contadina» più che dalle direttive politiche del pei. Da un anno e mezzo, però, per il «triangolo della morte» il movimento partigiano e il pei sono stati accusati di premeditate efferatezze e di omertà. Hanno senso queste accuse? Secondo Crainz, i dati poco si prestano a essere interpretati con le categorie dello «stalinismo», della «Gladio rossa» o della doppiezza di Togliatti. Al di là di responsabi- lità di quadri locali del pei, per esempio a Reggio Emilia, vi è soprattutto uno sfondo di durezza che nessun partito riuscì a disciplinare. Illuminante una lettera di Giorgio Amendola che, tornato dalla Romagna nell'agosto del 1944, scriveva: «Le cose non vanno affatto bene dal punto di vista politico, si sta preparando qui un'esplosione rivoluzionaria di tipo diciannovesco, i braccianti e i mezzadri vogliono subito la terra. Ora il reclutamento al partito avviene su queste basi». Forse esagerava, ma certamente nei mesi della lotta di liberazione e nel periodo immediatamente successivo, il pei si trovò ad affrontare un problema di «disciplina» della sua base; lo stesso problema che il partito socialista aveva avuto vent'anni prima. Al fondo, le condizioni materiali e le aspnazioni di braccianti e mez¬ zadri. Il «collocamento di classe» imposto dai braccianti, la pressione quotidiana sui proprietari, l'azione delle cooperative e del Comune rosso, l'aspettativa di una palingenesi hanno costituito la base della storia dell'Emilia popolare, massimalista o riformista, fino a quarant'anni fa. Su questa storia lunga si innesta il fascismo prima, l'occupazione nazifascista poi. Esemplare uno degli episodi più tragici, l'eccidio della famiglia dei conti Manzoni. Nella notte del 7 luglio '45 vennero uccisi i tre fratelli, l'anziana contessa, la domestica e anche il cane di casa. I corpi vennero occultati, indumenti e oggetti distribuiti e per molto tempo tutto il paese, della loro sparizione, dirà: «Sono andati in America». I Manzoni avevano aderito al fascismo e anche a Salò. In quella zona vi era¬ no state diverse uccisioni di partigiani. La loro villa era già stata presa d'assalto dai contadini nella «settimana rossa» del'14. • A Lugo è riportata l'uccisione di un ragazzo di diciassette anni, appartenente alle Brigate nere, che aveva ripiegato al Nord. Il suo nome di battesimo è Balilla, viene ucciso appena rimette piede in paese. Da Imola si riferisce di un assalto della folla a un autocarro che trasporta da Verona sedici detenuti politici appartenenti alle Brigate nere: dodici morti, in quattro riescono a salvarsi nascondendosi tra i cadaveri. In un altro caso, a essere uccisi sono sei fratelli e una sorella, soltanto per due dei quali i carabinieri dichiarano l'appartenenza alla milizia repubblichina. Tutto ciò è impossibile da interpretare con i soli criteri delle direttive politiche, dei piani preor¬ dinati. Il gruppo dirigente del pei, che aveva raccolto in brevissimo tempo la quasi totalità del movimento partigiano e contadino, vide spesso il proprio codice e le proprie regole soccombere di fronte allo scoppio di una violenza nata da forme di vita, di relazione e di conflitto molto più antiche e radicate. Oggi queste terre, tra le più ricche e moderne d'Italia, amministrate in genere dal partito comunista più riformista e ragionevole, sono un simbolo di pace sociale. La feroce jacquerie di appena quarant'anni fa sembra lontana un secolo. Eppure i protagonisti di questa storia sono ancora in vita, così come lo sono figli o parenti di uccisori o di vittime. Di quello che realmente avvenne, gli altri italiani di oggi non hanno coscienza o memoria. Sono state divulgate altre storie: quella di una resistenza disciplinata, di un sindacato riformista, oppure quella sanguigna, ma infine edulcorata, di don Camillo e di Peppone che ebbe tanto successo proprio perché era, in fondo, nazionalpopolare e consolatoria. Più di quello proposto dagli storici e sicuramente molto di più di quello oggi imposto dalla propaganda politica, lo scenario più vicino alla realtà è quello portato sullo schermo da Bernardo Bertolucci in Novecento, con la tragica normalità della miseria contadina, degli incendi dei fienili, delle uccisioni a colpi di forcone. Dice Crainz: «Claudio Pavone ha cercato coraggiosamente per anni di farci riflettere su questi temi, in particolare sulla presenza, nella Resistenza, anche di elementi di guerra civile, ma è stato a lungo zittito da larga parte dell'antifascismo ufficiale. Oggi il suo libro, Una guerra civile, ha avuto consensi unanimi e costringe tutti a interrogarsi davvero: sul rapporto, in situazioni di emergenza, fra l'uomo, la vita, la morte, la spontaneità - che non è una cosa incorrotta -, le scelte' individuali, le strutture organizzate, le radici dei conflitti, dei rancori e dei dolori». Sarà un percorso lungo, le ricostruzioni politiche sono più facili. Stalin e Truman, Sceiba e Togliatti tranquillizzano, come don Camillo e Peppone. Ma quella non è la storia vera. La storia vera è dolorosa e fa paura. Parte dai luoghi, dai dettagli citati nelle carte dell'archivio di Stato. Deve essere per questo motivo che nessuno ha voglia di andarle a leggere. Enrico Deaglio Seicento ammazzati in Emilia dopo la liberazione. Ecco le vere cifre Uno storico e i dati inquietanti degli archivi: non fu solo per politica «Cifu un di più di ferocia: in quel mondo contadino scoppiò una violenza covata da mezzo secolo» 1948: protesta di braccianti disoccupati. A destra, lo storico Guido Crainz, che rivela tutte le cifre e i nomi del «triangolo della morte» ione. Ecco le vere cifre on fu solo per politica golo a GIO IA/^ protesta accianti ccupati. destra, storico Crainz, la tutte e i nomi riangolo morte» «Cifu un di più di ferocia: in quel mondo contadino scoppiò una violenza covata da mezzo secolo» REGGIO EMILIA/^