Tempesta nel deserto Le notti della paura

Tempesta nel deserto Le notti della paura In ansia davanti alla tv. Polemica sul pacifismo, assalti ai supermercati, alibi per evitare ilfronte Tempesta nel deserto Le notti della paura DAVVERO soltanto un anno fa abbiamo provato uno spavento così profondo (non vile né debole ma —.—I civile, umano), davvero abbiamo vissuto lunghissime settimane in un'angoscia sospesa fra tragedia e scemenze, davvero abbiamo passato notti davanti al teleschermo a fissare quel nulla che erano mobili tracciati di luce arancione e ad ascoltare torrenti di parole senza senso? Davvero? Adesso, un anno dopo, sembra impossibile: la rimozione e la dimenticanza della guerra del Golfo sono state così repentine, così totali. Forse la guerra ci era veramente troppo estranea, forse aveva ragione Fellini quando diceva di non credere alla paura degli italiani («E' televisione, è partecipazione a un media-evento, è compiacenza del recitare la propria parte nel telespettacolo mondiale»), forse semplicemente non è necessario pensarci. Sembra impossibile, a ricordarlo, quel primo giorno. L'assalto a supermercati e negozi per far provviste di zucchero, scatolame, cibo, nella frenesia di prevedere, provvedere, rimediare. Lo svuotamento dei conti correnti bancari: i soldi, sempre meglio averli a portata di mano. L'ansia, l'inquietudine, i sonni agitati, i pianti facili, il bisogno di cercare gli amici e di parlare, l'incredulità, la nuova attenzione alle memorie di guerra dei vecchi. Le librerìe di colpo deserte: quel primo giorno una librerìa milanese incassò in tutto ventiduemila lire (un solo volume venduto), un'altra ottomilacinquecento (un tascabile), alla fine di gennaio una terza perdeva cento milioni rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. La stazione ferroviaria di Roma improvvisamente svuotata di extracomunitari : l'eventualità di venir scambiati per iracheni li aveva indotti a sparire. Le fiaccole delle manifestazioni pacifiste ardenti nel buio, i cori sommessi delle veglie di preghiera nelle chiese. Il Parlamento aperto tutta la notte, luci accese, servizi funzionanti, tensione drammatica. Comprare, parlare, guardare, manifestare, pregare: la paura della guerra si esprimeva un anno fa nei modi tipici della nostra società. Da quasi cinquantanni gli italiani non sperimentavano cosa fosse la guerra. Per le generazioni più giovani, se non era un gioco elettronico, un film con Stallone o un servizio televisivo da Beirut, la guerra non poteva che essere l'incubo del conflitto nucleare definitivo reso familiare dalla cultura nonviolenta e pacifista: la reazione era quindi d'estrema drammatizzazione, con la visione d'una catastrofe assoluta che poteva cominciare a un'ora prestabilita e compiersi in un attimo. Per le altre generazioni la reazione era riduttiva, sintomo di terrore e insieme di speranza: una guerra locale, non ci toccherà, finirà in pochi giorni. Ma la guerra ha anche questo di brutto, che offusca la lucidità del ragionare, cancella il buon senso, l'equilibrio e la tolleranza, crea faziosità irrazionali, dà a evidenti minuzie un'importanza sproporzionata. Da quel primo giorno di un anno fa, cambiano gli usi del vivere, s'infiammano furie balorde, si moltiplicano an che le sciocchezze. Giornalisti e presentatori tele visivi inaugurano toni di voce secchi e perentori da parodia di film di guerra americano, Peter Arnett della Cnn diventa più famoso di Benigni, i giornali si vendono sempre di più; cinema, teatri e sale da concerto sono vuoti, nei ristoranti si trova comodamente posto senza preno tazioni, il traffico s'è rarefatto, grandi alberghi sono disertati dalla clientela internazionale che ha paura di volare. La sera non si esce più: si sta a casa, a sentire alla tv le notizie manipolate o inesistenti. Le grandi aziende impongono ai propri funzionari, che da decenni non vedono un binario, di viaggiare in treno: l'assicurazione sui viaggi aerei è diventata troppo onerosa. LAlitalia cancella il quindici per cento dei voli anche nazionali, le Poste aboliscono subito ogni servizio verso il Medio Oriente. Nelle scuole si studia poco, s'accendono polemiche etico-filosofiche sulla «guerra giusta»: può esserci, non può esistere? Riemergono dal passato parole dimenticate, disfattista, fronte, diserzione: «operazione di polizia internazionale» è la formula usata dal governo per definire la nostra partecipazione alla guerra, e dall'eufemismo ridicolo la gente si sente presa in giro. Rispondendo a un sondaggio di Panorama, il 65,5 per cento dei giovani si dichiara favorevole all'intervento militare italiano nel Golfo, ma tra dire e fare c'è differenza: le famiglie che possono permetterselo spediscono i figli nell'età cruciale all'estero (mete preferite, Lugano e Ginevra); chi non può ricorre all'espediente di sempre, la raccomandazione (e il sottosegretario democristiano alla Difesa, Mastella, non campa più); democrazia proletaria mette un Centro di difesa legale a disposizione di «tutti i giovani di leva che intendono rifiutarsi di partecipare alla guerra», un'agenzia cattolica fornisce assistenza per le certificazioni d'obiezione di coscienza. Contro la guerra manifestano soprattutto i ragazzi che dovrebbero farla, con animo accorato ma a volte anche con briosi giochi di parole: «Diserta il deserto», è lo slogan degli studenti universitari di Camerino. La guerra lontana, remota per tutti tranne che per i combattenti, per le famiglie dei militari che sono nel Golfo o di chi vive in Israele, sembra dover imporre speciali austerità. Con vivo sollievo del Comune squattrinato, viene cancellato il Carnevale di Venezia. Ad Agrigento si annulla la 47a Sagra del Mandorlo in Fiore, l'associazione degli austriaci residenti a Roma abolisce il suo Tradizionale Ballo Annuale, la casa editrice Marietti rinuncia a presentare le collane «Corpus e Biblioteca arabo-islamica». Verona rinuncia all'antico corteo carnevalesco Bacanal del Gnoco e al relativo Gnocolar, mentre al carnevale di Viareggio sfila il nero fantoccio sanguinario di Saddam Hussein e la maschera più venduta è quella che riproduce in plastica leggera le fattezze e i capelli scuri del ministro degli Esteri De Michelis: venticinquemila lire. «Sai cosa vuol dire sad- damizzare? Metterglielo nel Kuwait», è una barzelletta d'occasione, ma i commercianti hanno poco da ridere, protestano: devono proprio rimetterci soltanto loro? La guerra combattuta da un gruppo di fornitori di attrezzature belliche contro uno dei loro migliori clienti, diventa paradossalmente un disastro per ogni commercio. Saddam Hussein è il diavolo, circolano su di lui notizie atrocissime: da piccolo sodomizzava i cani con ferri roventi, strappò un occhio al secondino, ha ucciso e smembrato centottanta dei suoi uomini inviando poi ai parenti i pezzi di cadavere, si cavò da sé un proiettile dal piede col temperino, è mostruoso, farneticante, paranoide nazista, lucido pazzo, pazzo furioso. I pacifisti sono il nemico interno, raccolgono insulti iperbolici: piagnoni papisti, prigionieri dei passato, ragazzini bigianti e vocianti parole d'ordine consunte, «responsabili della divisione del Paese», se continuano con le loro manifestazioni per la pace sarà «la fine d'una civiltà». Quando il deputato cattolico di Comunione e Liberazione Roberto Formigoni si alza in Parlamento per annunciare la propria astensione dal voto sulla partecipazione italiana alla guerra, viene accolto da fischi, mugugni, insolenze («coniglio», «piccione»), da volgarità alludenti al voto di castità da lui pronunciato. Quando riferisce di pericoli per la vita del Papa che predica la pace, secondo i suoi colleghi di partito democristiano e di Parlamento è un disorientatore, uno che «ulula alla luna denunce che destano allarme», un «diffusore di panico», un irresponsabile. Simili furie nascono, al solito, anche da ragioni partitiche: la democrazia cristiana teme di perdere il consenso dei pacifisti cattolici, teme la concorrenza della Lega lombarda pacifista, si trova opposta al Papa; il partito socialista si trova in contrasto con la propria storia, teme che i comunisti recuperino col pacifismo parte dei consensi perduti. Ma il primo conflitto multinazionale a venir seguito in illusoria diretta televisiva da milioni di persone delude i suoi telespettatori, non è quella videoguerra lampo dall'impeccabile regia che s'era immaginata, si ripete, va per le lunghe, e gli italiani si stufano. Subentra la lotta domestica contro la Morsa del Gelo invernale, tensione e paura collettive dei primi giorni si consumano, ottundono, attenuano: più le notizie diventano terribili e meno la gente pare interessarsene. Ciascuno s'abitua come può. Quando nel Golfo tutto finisce ufficialmente, nelle teste o nei cuori italiani tutto era già finito da un pezzo. La guerra risulta troppo in contraddizione con l'individualismo indifferente, con il culto dell'Io e della realizzazione personale, con la fiducia nella trattativa e nel compromesso come strumenti atti a risolvere ogni conflitto, con le poche certezze forniteci dalla nostra cultura: e viene subito dimenticata. Lietta Torna buoni Deserta cinema e le librerie, paura di volare, veglie e fiaccolate Peter Arnett della Cnn è ora più famoso di Benigni / s