«Nessun complotto contro Sofri»

«Nessun complotto contro Sofri» Depositata la sentenza d'appello Calabresi: Marino ha detto la verità «Nessun complotto contro Sofri» Igiudici: basta leggere tutti gli atti Le prove contro gli imputati ci sono MILANO. Da pagina 375 a pagina 382, sette fogli dal titolo «Il complotto». Svolgimento: Leonardo Marino ha detto la verità, il commissario Luigi Calabresi è stato ammazzato il 17 maggio 1972 da Ovidio Bompressi, i mandanti sono Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri e ne hanno responsabilità penale, Lotta Continua ne ha la responsabilità politica. La conclusione è che Marino con la confessione si merita i suoi 11 anni di condanna, gli altri tre si meritano 22 anni. Da scontare se sconteranno - dopo la sentenza della Cassazione. Le motivazioni di questa sentenza d'appello riempiono quasi 400 pagine. Ma dopo le polemiche che hanno accompagnato l'istruttoria, il primo processo, la prima sentenza, il secondo processo, la seconda sentenza (una per tutte, da «L'Unità»: «E sarebbe un processo questo?» per finire con un giudici farabutti) l'attenzione finisce su quelle sei pagine. Anche i giudici dell'appello non hanno mai voluto - né possono replicare alle accuse di chi ha sempre creduto nella verità di Sofri. Ma quelle sei pagine e soprattutto quel titolo secco, «Il complotto», sembrano la loro unica risposta possibile. «Secondo la teoria del complotto - scrive il consigliere relatore Laura Bartolè Viale, senza trattenere una certa ironia Marino si sarebbe inventata tutta la storia dopo aver accumulato alcune centinaia di dati fornitigli dalla lettura dei giornali o dai carabinieri che lo avrebbero istruito durante i 17 giorni tra la sua prima visita al maresciallo di Sarzana e l'incontro con il magistrato. Questa diabolica messa in scena (...) sarebbe servita a saziare finalmente un insopportabile desiderio di trovare i responsabili di un'azione politica degli Anni 70». E ancora: «Il prezzo da pagare, e cioè tramutare la propria modesta ma tranquilla vita di insospettabile e incensurato venditore di crepes in quella di condannato per omicidio premeditato, sarebbe stato accettato da Marino in nome di non si sa bene quali sentimenti di vendetta e di rancore verso gli antichi compagni. Questo, infatti, dovrebbe essere l'unico scopo di Marino, dal momento che si è così a lungo insistito sul suo bisogno di soldi e sul suo essere rimasto in una situazione precaria mentre gli accusati hanno fatto fortuna, e dal momento che si è esclusa ogni forma di pazzia avendo nessuno mai adombrato una richiesta di perizia psichiatrica». Sette pagine tutte così: «E' stato detto e ripetuto che compito della corte non è stabilire "perché mente", ma solo trovare le menzogne. E dato che le menzogne non sono state trovate, ma anzi è stata trovata la verità, ne deriva che non è compito di questa corte stabilire "perché Marino ha detto la verità"». Seguono quattro «non è vero». Che Marino avesse bisogno di soldi: «Le sue condizioni economiche erano state peggiori». Che volesse vendicarsi di qualche amico. Che fosse invidioso. Che sia stato «istruito» dai carabinieri: ne aveva già parlato con il parroco e un senatore pei. Anche per questi giudici dell'appello non esiste mistero, né tantomeno complotto: «Amarezza e paura sono gli stati d'animo manifestati da Marino. Amarezza per essere stato usa- to da persone di cui aveva cieca fiducia (...), paura per minacce ricevute e intuite per sé e per i suoi». Insomma, la sentenza che condanna Marino, Bompressi, Pietrostefani, Sofri (e Lotta Continua) finisce con il difendere il confesso Marino da tutti i possibili attacchi: «Non è un mitomane», si legge: è la difesa che non ci ha convinto, si è contraddetta - sostengono i giudici -, l'accusa e Marino no. Il finale è la sintesi della sentenza e della risposta ai «complottisti»: «Confessare simili delitti non è stato certo facile; è inumano pretendere un com¬ portamento coerente e scevro di tentennamenti da chi questa confessione affronta, e soprattutto non può pretenderlo chi, nonostante quanto finora scritto, a tale confessione non è ancora pervenuto». Come se dicessero a Sofri e gli altri: manca solo la vostra confessione. E basta questo per prevedere altre polemiche, che - commenta la corte d'assise d'appello - in passato hanno già superato «di gran lunga i limiti di una ragionevole critica all'operato dell'autorità giudiziaria». Giovanni Cerniti Adriano Sofri, 49 anni L'ex leader di Lotta continua attualmente svolge attività giornalistica e di ricerca

Luoghi citati: Milano, Sarzana