Scorsese: racconto violenza perché siamo all'Apocalisse di Lorenzo Soria

Scorsese: racconto violenza perché siamo all'Apocalisse Incontro con il regista che sabato sarà premiato a Roma Scorsese: racconto violenza perché siamo all'Apocalisse LOS ANGELES. L'idea di riportare sullo schermo «Cape Fear», ovvero «Il promontorio della paura», il classico thriller in bianco e nero del 1962, Steven Spielberg l'aveva accarezzata per anni. Aveva anche trovato un interprete ideale: per la parte di Max Cady, lo psicopatico che appena scontati 14 anni di prigione inizia a terrorizzare la famiglia dell'uomo che ritiene responsabile della sua condanna, Robert De Niro era pronto ad assumere il ruolo che era stato di Robert Mitchum. Ma Spielberg si ritrovò travolto da altri impegni e nell'estate del '90 propose il remake di «Cape Fear» a Martin Scorsese. In coppia con De Niro, il regista italo-americano ha prodotto alcuni tra i migliori film del cinema americano: «Taxi driver», «Raging Bull» (in italiano è «Toro scatenato», ndr), «Goodfellas» («Quei bravi ragazzi»). E poi, non aveva sempre dichiarato di essere un amante del genere thriller? Ma Scorsese, in quel perìodo, era ancora completamente immerso nel montaggio di «Goodfellas». Nella sceneggiatura offerta da Spielberg c'era inoltre un qualcosa che non lo convinceva. Per il maestro dell'esplorazione di temi come peccato, redenzione, senso di colpa, i Bowden, la famiglia sottoposta alla violenza di Max Cady, erano troppo perfetti. E se al posto di una famiglia ideale americana ci fosse stato un nucleo già pieno di tensioni? E se la figlia quindicenne, di fronte alle avances dell'ex carcerato, provasse non solo terrore ma anche un brivido di eccitazione? Scorsese, insomma, voleva fare un film alla Scorsese, rappresentare un universo popolato di personaggi pieni di ambiguità e dove le categorie morali si confondono e si rimescolano in continuazione. E solo una volta ottenuto il permesso di cambiare la sceneggiatura ha seguito il consiglio degli amici Spielberg e De Niro e ha accettato di dirigere il remake. Girato per 17 settimane in un piccolo paese della Florida, «Cape Fear» non dà pause, tiene gli spettatori con il fiato in sospeso dall'inizio alla fine. De Niro, nel ruolo dell'angelo vendicatore col corpo totalmente ricoperto di tatuaggi e che vuole portare a termine con fervore religioso la sua missione, offre un'altra delle sue leggendarie performances. Oggetto del suo sadismo perverso sono Nick Nolte, l'avvocato che «deve» pagare per la sua incarcerazione; Jessica Lange, nel ruolo della moglie, e la bravissima Juliette Lewis in quello della figlia teenager. In ruoli simbolicamente capovolti rispetto alla versione originale, ecco poi Robert Mitchum nella parte di un poliziotto e Gregory Peck, che dà vittima designata del protagonista psicopatico diventa il suo legale. Ma lasciamo la parola a quello che gran parte dei suoi colleghi ritiene il più grande regista americano vivente: Martin Scorsese, che sarà a Roma sabato prossimo per ricevere in Campidoglio il Premio Filmcritica, lo stesso che fu assegnato l'anno scorso a Elia Kazan e in precedenza a Billy Wilder. Do- menica, inoltre, Martin Scorsese sarà l'imputato eccellente di un «Processo», ovvero un dibattito sul suo cinema, cui parteciperanno critici italiani e stranieri. Di fronte alla proposta di fare «Cape Fear» la sua prima reazione è stata un no. Perché? E che cosa le ha fatto superare la sua riluttanza? Ho accettato di fare «Cape Fear» quando ho visto che Max Cady poteva essere uno che crede di avere una giustificazione morale e che ha la capacità di esercitare violenza non solo fìsica ma anche psicologica ed emotiva. E soprattutto quando Bob (De Niro, ndr.) mi ha fatto capire che da un personaggio come quello, insieme, avremmo potuto tirare fuori qualcosa di molto interessante. Ma sì, perché nel cinema alla fine è una questione di collaborazione e io e Bob quando siamo vicini continuiamo a spingerci, a stimolarci a vicenda. Rivediamo assieme parola per parola, scena per scena finché non tiriamo fuori l'uno dall'altro il meglio di noi. Al suo primo thriller, va a scegliere un remake di un classico della paura girato nella Hollywood degli Anni Sessanta. Ha voluto che anche lo stile del film fosse un po' un omaggio al genere e al perìodo? Il tema della vendetta è un tema universale e non legato al tempo. Sì, in un certo senso io pesco molto dal vocabolario cinematografico dei vecchi film di Hollywood. Ma credo anche di dare un approccio più moderno ai personaggi, di saperli rendere più complessi. Nell'originale c'era il bene e c'era il male. Qui, anche se solo nelle loro fantasie e non nei fatti, ogni personaggio è colpevole di qualcosa. E la decisione di andare a riprendere Robert Mitchum e Gregory Peck? Come mai? E che reazioni ha avuto? Con Bob abbiamo pensato che sarebbe stato bello poter avere quanto più attori possibili dalla versione originale per poter dare un'idea di continuità, per indicare che questa era una nuova generazione che affronta la stessa storia. E avere avuto l'appoggio di attori come loro è stata come una benedizione. Robert Mitchum è stato con noi un paio di giorni e si è divertito moltissimo. Anche Peck: ha girato solo un giorno, ma prima ci eravamo incontrati a Parigi con lui e con Bob per discutere la sua partecipazione e quindi ci siamo parlati tante volte. E con la loro presenza, con quella di Martin Balsam, abbiamo confermato che non intendevamo negare la prima versione, che volevamo riammodernarla e renderla come una specie di secondo capitolo della stessa storia. Perché anche Scorsese cede alla lusinga del remake? Perché con altre forme d'arte non vediamo questa tentazione? Devo dire che un'altra delle ragioni che mi hanno fatto tentennare prima di affrontare questo progetto è stata proprio la parola sequela. Ma allo stesso tempo è anche vero che ci sono storie che sono legate a una particolare situazione in un particolare periodo e altre no. Che so, sugli ammutinati del Bounty abbiamo tre versioni e sono tutte molto interessanti. E il perché è semplice ed è che ci sono dei temi e dei conflitti morali che si ripresentano a ogni generazione. Amore, fiducia, vendetta, onore sono emozioni di base che fanno parte della vita di ogni essere umano. Se è la prima volta che si avventura in un remake, la violenza è invece un tema che le è molto familiare. Perché continua ad affascinare gli spettatori? E Scorsese, che cosa ci trova? Non so se la violenza sullo schermo può avere un valore catartico, ma so di certo che la fine di questo secolo è uno dei periodi più violenti e terrorizzanti della storia dell'umanità. Possiamo disintegrare la nostra civiltà in un secondo e questo ormai fa parte del nostro inconscio, è un qualcosa che ci portiamo sempre dietro. Camminiamo per le strade delle nostre metropoli e automaticamente, con un istinto protettivo, sviluppiamo un campo di visione periferico. La violenza ormai la diamo per scontata. Ogni giorno, per 24 ore, ci vengono buttate nuove informazioni. Una situazione quasi apocalittica. E questo finisce per riflettersi sul tuo lavoro. Non puoi farne a meno. Lorenzo Soria Il remake del film «Il promontorio della paura» con De Niro Foto grande: Martin Scorsese Sopra a sinistra, Robert De Niro A destra, una scena del primo «Promontorio della paura» con Robert Mitchum Qui a fianco: Jessica Lange

Luoghi citati: Florida, Hollywood, Los Angeles, Parigi, Roma