Povera utopia di Gorbaciov di Sergio Romano

Povera utopia di Gorbaciov Il saggio di Salvador! Povera utopia di Gorbaciov Michail GorbacTI IMMAGINATE per un I istante un grande riceviI mento alle Tuilcries nel 1787. Circondato dai _*lsuoi ministri, dai suoi marescialli, dai principi del sangue e dalla noblesse de robe, Luigi XVI festeggia un grande anniversario della monarchia capetingia. Il re ammette che non tutti i suoi antenati furono galantuomini, che le condizioni economiche della Francia non sono buone, che la guerra d'America ha prosciugato le casse del Tesoro e che nel Paese serpeggia un insidioso sentimento di sfiducia. Ma è tranquillo, sereno. Rivendica i meriti storici della monarchia, sottolinea i progressi della società francese, sostiene che tutti i suoi predecessori, anche i peggiori, hanno bene operato per le fortune della patria, promette riforme di grande portata e di sicuro successo. Qualcosa del genere accadde al Cremlino il 7 novembre 1987 per il settantesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. Gorbaciov parlò a lungo con fiducia e fermezza. Stalin aveva commesso molti errori e si era macchiato di gravi colpe, ma aveva dato «un contributo indiscutibile (...) alla lotta per il socialismo e alla difesa delle sue conquiste». Certo, occorreva rivedere attentamente la storia sovietica, riempire le «pagine bianche» che ne deformavano il significato; ma non era lecito ignorare che l'Ottobre aveva dato inizio alla «nuova epoca del progresso sociale», alla «vera storia dell'umanità». Per risanare l'economia, ringiovanire il partito, modernizzare lo Stato, occorreva tornare a Lenin di cui lui, Gorbaciov, era la moderna incarnazione. La perestrojka avrebbe preservato le vittorie del passato e preparato i trionfi del futuro. Più tardi, nei grandi saloni del palazzo dei Congressi, Gorbaciov ricevette amabilmente tutti coloro che erano venuti al Cremlino per porgergli i più vivi rallegramenti: Castro, Ceausescu, Honecker, Menghistu, Kadar, gli ambasciatori stranieri, il patriarca di tutte le Russie. Uno dopo l'altro i principi del comunismo mondiale sfilarono di fronte al giovane re che avrebbe restituito alla patria sovietica il fulgore di un tempo. Come i grandi riformatori della Francia prerivoluzionaria Turgot, Necker, Loménie de Brienne - i padrini della perestrojka - Jakovlev, Shevardnadze, Ryzkhov - montavano la guardia sorridendo intorno alla loro creatura. Fu quella certamente, l'ultima festa dell'Ancien Regime Sovietico. Nell'ultimo capitolo de Lutopia caduta, pubblicato recentemente da Laterza, Massimo L. Salvadori coglie perfettamente il senso e l'importanza del discorso che Gorbaciov pronunciò per il settantesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. La prima edizione del libro apparve presso Mondadori nel 1984 con un titolo diverso {Storia del pensiero comunista. Da Lenin alla crisi dell'Internazionalismo). Era l'eurocomunismo, allora, la punta più avanzata del grande percorso che l'autore aveva attentamente ricostruito da Lenin ai nostri giorni. Nel definirne i caratteri, Salvadori osservò che l'eresia di Berlinguer e di Carrillo era in contraddizione con se stessa. Si proclamava erede del comunismo di Lenin, ma affer¬ ov mava principi e posizioni che Vladimir Ilijc non avrebbe mai sottoscritto: rinunciava alla dittatura del proletariato e al ruolo dominante del partito comunista, rispettava il pluralismo, aspirava a riparare i guasti del vecchio divorzio bolscevico dal socialismo democratico. Aveva un programma, insomma, che era esattamente il contrario di ciò che Lenin aveva detto e fatto nel corso della sua vita. L'ultimo capitolo del libro di Salvadori (/ tre volti del collasso del comunismo) è stato scritto dopo gli avvenimenti dello scorso agosto, ma è cucito al capitolo precedente da un filo logico che assicura la coerenza e la completezza dell'opera. Gorbaciov fu infatti, a suo modo, un eurocomunista involontario. Voleva «tornare a Lenin», e non si accorse che ogni suo passo lo allontanava dalle idee del padre fondatore. Voleva restituire al partito comunista l'egemonia intellettuale e morale sulla società sovietica, e non si accorse che ogni esortazione alla purezza scopriva le sue pecche e affievoliva la sua autorità. Cercò di conciliare la proprietà statale dei mezzi di produzione con gli incentivi dell'economia di mercato, e non si accorse che ogni nuova legge della perestrojka rendeva l'edificio sempre più instabile e vacillante. Queste illusioni emergono con chiarezza dal discorso del settantesimo anniversario. Come scrive Salvadori, è «il testo principale, anche se non l'unico, a cui occorre rifarsi per cogliere la convinzione che il nuovo corso debba restare, secondo le intenzioni del suo protagonista, saldamente radicato nella tradizione del potere bolscevico (...)». Mi spingerei più in là. Il discorso con la sua spavalda ricostruzione del passato e la sua fiduciosa visione del futuro, è la punta più alta della parabola gorbacioviana, il momento delle grandi speranze e delle generose illusioni. Da allora la curva cominciò a scendere, prima dolcemente, quasi impercettibilmente, poi bruscamente e rovinosamente come il fianco di una montagna che frana a valle trascinando con sé tutto ciò che trova sul suo cammino. I due assunti della politica di Gorbaciov - la riforma del partito e la riforma dell'economia - si rivelarono egualmente falsi. Come gli eurocomunisti, Gorbaciov si mise freneticamente alla ricerca di una «terza via» che gli permettesse di salvare la continuità e la legittimità della storia sovietica, e come gli eurocomunisti non riuscì mai a trovarla. Ma se gli eurocomunisti ebbero la buona fortuna di non doversi assoggettare alla verifica del potere, Gorbaciov fu costretto a bere sino in fondo il calice delle sue convinzioni. Dal 1987 al 1991 percorse una strada in discesa lungo la quale trovò soltanto la prova delle proprie contraddizioni e ambiguità. Credeva di obbedire alle leggi del socialismo scientifico e obbediva inconsapevolmente a una disincantata teoria di Tocqueville, ricordata da Salvadori, «secondo la quale, quando si prende a cambiare un sistema non libero e profondamente segnato dalle sue rigidezze interne, il risultato può essere non il suo miglioramento ma la sua fine». Sergio Romano Michail Gorbaciov

Luoghi citati: America, Francia