MYRICAE, ALLE ORIGINI DELLA POESIA PURA

MYRICAE, ALLE ORIGINI DELLA POESIA PURA MYRICAE, ALLE ORIGINI DELLA POESIA PURA Le liriche di Pascoli che annunciano il '900 fSA A ENT'ANNI fa usciM ■ ^ va la prima ediziofl 1J ne delle Myricae j | pascoliane; e anche ! se il libro, non ve¬ nale, pubblicato in ' ! ìj occasione delle ■ ! nozze dell'amico di V J giovinezza Raffael^^■/ lo Marcovigi, comprendeva soltanto ventidue testi dei settantadue dell'edizione del 1892, che diventeranno centocinquantasei nella V edizione del 1900, il 1891 può essere preso come una di quelle date significative nella vicenda della poesia moderna, da cui si può far partire il discorso di un nuovo stile, di una nuova idea poetica. Delle Myricae, dal punto di vista della costituzione della raccolta, e della storia interna di accrescimenti e varianti sappiamo ormai tutto, per merito in particolare di Giuseppe Nava, che ne ha dato l'edizione critica ora riproposta per l'editore Salerno, con il commento edito una prima volta nel 1978 ma rivisto e accresciuto. C'è da dire anzitutto che Myricae sono il frutto di un lavoro abbastanza lungo non solo di stesura, ma anche di revisione e di varianti, fino all'ultima edizione che ne curò il Pascoli nel 1911, quasi alla vigilia della morte. Non sono, cioè, l'opera della giovinezza poetica, per questo, secondo tante interpretazioni nutrite dei miti della spontaneità, della naturalezza, della freschezza immediata della scrittura poetica, da priviligiarsi come il vero e vivo libro del Pascoli, poi appannatosi per pretese di più colto e alto linguaggio e di temi eroici o politici o classicistici. Sono l'opera, invece, di un'intera vita poetica, che si intreccia con gli altri livelli tematici e stilistici che il Pascoli via via sperimenta nei Poemi conviviali o in Odi e inni o nei Poemetti. Ma sono, tuttavia, sempre il punto di riferimento necessario per parlare della durata della poesia pascoliana nel Novecento come momento di fondamentale innovazione. Negli Anni Sessanta e Settanta, questo fu un tema costante della critica, da Contini a Pasolini fino a Sanguineti: il Pascoli, in particolare quello di Myricae, avrebbe rinnovato a fondo il linguaggio della poesia attraverso l'abbandono delle forme auliche e rigorosamente selezionate della tradizione; avrebbe sconvolto la gerarchia e le classificazioni degli oggetti poetici, avrebbe radicalmente terremotato il punto di vista nelle descrizioni di luoghi stagioni situazioni, ponendolo dentro le cose e non più in una posizione di superiore privilegio di conoscenza che il poeta si prenda per sé, avrebbe fatto una poesia di oggetti invece di una poesia di princìpi o di passioni, e su questa linea avrebbero proseguito Gozzano e Montale. E' in gran parte un'interpretazione che regge alla rilettura, oggi, di Myricae, con la possibilità, in più, che ci è offerta dal commento di Nava, di verificare la complessità di citazioni, rielaborazioni, riprese di testi del passato che nell'apparentemente semplice poesia di Myricae si devono riconoscere come componenti essenziali della coltissima e difficile scrittura pascoliana, secondo i diversi apporti che il Pascoli accoglie dai classici, da Dante, da Leopardi, dalla poesia straniera, francese e soprattutto inglese, a dimostrazione del carattere assolutamente non «ingenuo» e tanto meno «sentimentale» dell'opera. L'intarsio di reminiscenze consapevolmente ricevute e rielaborate, il camuffamento di esse abilmente compiuto con l'ampio ricorso a elementi di paesaggio abbastanza comuni o a situazioni biografiche che, pur con la loro evidenza perfino troppo caricata, in realtà non son mai semplicemente sfogo o confessione o lamento, ma si trasfigurano in esempi universalmente validi della condizione umana e dello stato del mondo, sono aspetti della poesia del Novecento che il Pascoli configura già in modo perfetto. In omaggio all'idea di poesia pura, che il Novecento ampiamente accoglierà, Myricae offre la sequenza di testi brevi, lontani da ogni contingenza pratica, di carattere politico o morale o ce- lebrativo di eventi o di magnifiche sorti. Ogni singolo componimento pascoliano vuole essere un esempio assoluto di come è la vita, di quanto significa e intende comunicare la natura, di quella che è la sorte di tutte le cose. Intende rivelare anzitutto che è impossibile fissare sulle cose, anche sulle più semplici, uno sguardo che le comprenda unitariamente e sinteticamente tutte. Lo sguardo è inquieto, si fissa sui particolari, li eleva a protagonisti della rappresentazione poetica, e, al tempo stesso, relega in secondo piano, quando non lo annulla completamente, quell'io che per tanto tempo è stato oggetto privilegiato del fare poesia, per sostituirgli le cose nel loro misterioso intreccio di significati, di simboli, di allusioni a una verità che è al di là della ragione e della scienza e che soltanto la forza rivelatrice della parola poetica può mostrare. Tale mistero è costituito, come dimostra uno dei componimenti di Myricae che si incontrano significativamente all'inizio del libro, Scalpitio, da una visione del mondo e dell'uomo che con tanta forza e urgenza presente nel Novecento: un radicale nichilismo, per il quale, sotto il cielo vuoto, l'unica cc~ i.ezza ossessivamente presente ne Ha natura come in ogni momento dell'esistenza dell'uomo e nella storia è la morte. Il grande simbolismo pascoliano è anch'esso un punto di par- tenza essenziale per la cultura poetica del Novecento, a patto che non si dimentichi come le stesse Myricae vengano almeno una dozzina d'anni dopo che D'Annunzio aveva incominciato a pubblicare versi e, insieme con preraffaelliti, parnassiani e altri movimenti poetici europei, anche il simbolismo attraverso l'opera dannunziana era già penetrato in Italia, influenzando lo stesso Pascoli, con un reciproco scambio che si continuerà fino ai Poemetti e ai Conviviali per una parte, e fino alle Laudi per l'altra. Di Myricae come Temporale, Novembre, L'assiuolo, 12 piccolo bucato, Il lampo, Il tuono, Ulti¬ mo sogno, Arano, si nutrirà la ricerca di simboli della poesia novecentesca, così come delle analogie, delle sinestesie, dei ritmi franti, dello stesso uso di strutture narrative la cui tecnica è modernissimamente nel Pascoli quella di porre il lettore al centro di una situazione enigmatica per guidarlo poi non all'uscita dal labirinto delle immagini e delle cose, ma verso l'acquisizione della consapevolezza che non ci sono salvezze né soluzioni, e il percorso del racconto è un continuo andirivieni turbato e inquieto fino all'angoscia. Il sogno, la visione (come quel ritorno prenatale nella malattia e nella morte che è rappresenta¬ to in Ultimo jogno, uno dei testi più ricchi e originali di Myricae), sono i luoghi senza tempo e con spazi indeterminati, finti, fantastici, in cui la poesia del Pascoli si muove. La lezione pascoliana, allora, come molto bene aveva capito Pasolini, dura al di là della prima metà del Novecento, soprattutto quando vengano ricuperate o le suggestioni narrative, ma di una narratività aperta, allusiva, oppure quelle dell'invenzione e del simbolo, con la sua amplificazione che è l'allegoria, quale il Pascoli ritrovava come proprio modello, come bene ha mostrato il Perugi nel suo comento, in Dante. La molta fortuna critica, le riedizioni, i molti commenti delle singole raccolte testimoniano non soltanto la rilettura degli specialisti, ma l'interesse dei lettori. Scomparso il mito, quanto mai falso, del Pascoli sentimentale e bamboleggiante, il lettore trova oggi nella poesia pascoliana lo specchio delle ansie per la fine delle certezze della scienza e della storia, quale il Pascoli in modo fondamentalmente tragico ha rappresentato fin dal 1891 delle prime Myricae. Giorgio Bàrberi Squarotti Giovanni Pascoli Myricae Salerno pp. 350. L 55.000 Gìovaruù Pascoli Cent'anni/a usciva la prima edizione di «Myricae.»

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