Infiammato duello tra pittori e poeti di Claudio Gorlier
Infiammato duello tra pittori e poeti Infiammato duello tra pittori e poeti Con un tormento: emanciparsi dall'Europa UANDO si parla di rapporto tra letteratura e arti figurative negli Stati Uniti, l'accostamento più ovvio e prevedibile si istituisce tra la narrativa di John Steinbeck e il canonico American Gothic di Grant Wood, il dipinto con la coppia di agricoltori dallo sguardo impenetrabile, dal volto senza sorriso. Perché no? Ma il discoreo è assai più complesso, e va osservato subito che l'arte americana, a somiglianza del teatro americano, ha sostenuto a lungo, suo malgrado e con qualche sofferenza, la parte del figlio meno vigoroso, rispetto al rigoglio della letteratura. E non certo perché, con la consueta acre irriverenza, negli Anni Venti uno dei grandi moderatori della cultura americana, H. L. Mencken, chiamasse il suo Paese, almeno in parte, il «deserto delle belle arti». Le arti non sono state marginalizzate, al contrario. Già in pieno '800, non solo la dimensio¬ ne visuale possiede un'incidenza considerevole nel discorso letterario, a partire da Nathaniel Hawthorne, da Herman Melville, fino al culmine rappresentato da Henry James. Il paradosso sta nel fatto che gli scrittori e i poeti occupano brutalmente il territorio, e si impadroniscono essi stessi degli strumenti delle arti figurative. E' stato così molto a lungo, anche nei primi decenni del Novecento. Sam Hunter, uno dei maggiori critici d'arte americani, il quale ha scritto un denso saggio per la mostra di arte americana al Lingotto, osserva nel suo fondamentale libro sulla pittura e la scultura americana moderna che in Addio alle armi di Hemingway il protagonista, durante la ritirata di Caporetto, prova un conforto persino fisico, intriso di sensazioni, di fronte alle canne oliate dei fucili, in ciò rivelando quella sorta di rispetto per il congegno, per la macchina o i meccanismi, caratteristicamente americano: identificazio¬ ne romantica tra macchina e destino dell'individuo. Lo stesso si rileva del rapporto tra un grande poeta come Hart Crane e un pittore, Joseph Stella, che entrambi scelgono a soggetto il ponte di Brooklyn, architettura, capolavoro meccanico, totem. D'altro canto, i vagabondaggi strutturali di Tropico del Cancro e di Tropico del Capricorno di Henry Miller rivelano paradigmi molto prossimi al verbo Dada nelle arti. Miller si è letteralmente impadronito di una dimensione figurativa. Non basta. La letteratura americana presenta forse la più ricca galleria di personaggi-artisti, nuovamente da Hawthorne (il cui artista, o artefice del bello, è significativamente un artigiano, un creatore faustiano attirato dalla perfezione dei meccanismi tecnologici) e ancora con James, egli stesso grande critico d'arte. Sennonché il referente artistico è quasi sempre, direttamente o mediamente, europeo. Qui sta una delle ragioni della minorità dell'arte americana fino all'incirca agli Anni Trenta del nostro secolo: la sua tormentosa ricerca di specifico americano, quando la cultura letteraria, la stessa architettura, la filosofia, la scienza, recano ormai una ben precisa impronta americana, e il teatro acquista una fisionomia propria a partire dagli Anni Venti. Ma a ben vedere, la simbiosi è interna, e si apre su un amplissimo ventaglio. Trascuriamo pure le frequentazioni individuali, gli scrittori e poeti che si incontravano nelle gallerie d'arte gestite da Alfred Stieglitz. Cerchiamo di pensare agli spazi aperti del West, alla Frontiera teorizzata a fine Ottocento da Turner come un fattore di progressivo allontanamento dall'Europa, fino alla California. Su quel «territorio oltre» muove Mark Twain; a San Francisco maturerà, sulle orme di Miller, la «beat generation». Ma in California si trova Hollywood, e nello spazio si incardina il film western. Bene: lo ri- scopre una delle più grandi artiste americane del secolo, Georgia O'Keeffe. Nel nuovo sistema sociale e intellettuale espresso dal Middle West e dal West trovano posto per nascita i maggiori autori americani dal '20 al '40, e molti dei più grandi artisti. Il regionalismo è categoria profondamente americana, non meno della relazione costante tra realismo e simbolismo, in letteratura, nelle arti, in musica (Aaron Copland, e prima ancora Charles Ives). L'occhio, la visualità, trovano un riscontro speculare nella fotografia, altro genere di straordinaria fecondità negli Stati Uniti; l'interesse per l'oggetto più ordinario sostanzia la popart ma anche la narrativa postmoderna, la letteratura spazzatura di Donald Barthelme. L'i¬ perrealismo celebra uno dei suoi trionfi in Taxi Driver di Scoreese. Ma un dato accomuna arte, letteratura, musica (John Cage) nei decenni del secondo dopoguerra, cioè la tendenza a descriverei, a studiarsi, a raccontarsi, a riflettere su di sé, mentre la poesia concreta salda parola e immagine, nel momento in cui esplode il multiculturalismo e termina il monopolio anglosassone protestante. Ecco ciò che qualcuno ha definito la tradizione del nuovo. Visionario, realista, simbolico, assurdo, ironico, l'artista americano opera in un contesto sempre meno ristretto, indipendentemente dall'ampiezza del suo pubblico. Il dottor Stranamore, le fantasie fumettistiche di Lichtenstein, gli arabeschi dei narratori post-moderni, si danno la mano. Claudio Gorlier John Steinbeck (a sinistra) e Henry Miller. La letteratura americana ha sempre avuto stretti rapporti con l'arte
Luoghi citati: California, Caporetto, Europa, Hollywood, San Francisco, Stati Uniti
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