1930-1970 L'arte americana al potere

1930-1970 L'arte americana al potere Torino, 196 opere «made in Usa» in un'avvincente mostra al Lingotto. Le sorprèse della grande scultura 1930-1970 L'arte americana al potere Non più dimensioni «da cavalletto», addio distinzione oggetto-ambiente RTORINO ICORDATE Rossellini, La presa del potere di Luigi XIV? «Arte americana 1930-1970», al Lingotto da oggi al 31 marzo, è la storia di un passaggio di poteri nell'arte contemporanea: da Parigi a New York (e Los Angeles: i suoi artisti di forme primarie in scultura e pittura, Bell, De Maria, Le Va, McCrackan, Irwin e i concettuali come Baldessari saranno rivelazioni per il pubblico). Potere, o meglio e soprattutto potenziale creativo, paragonabile solo a quello diramato fra Parigi, Monaco e Milano nei primi due decenni del secolo. Che poi su questo potenziale si siano innestate operazioni «coloniali» politicoeconomiche, nulla toglie alla forza travolgente di un fenomeno che non è schiavo, anzi in larghi settori contesta l'«american way of life». Al lettore che voglia affrontare con comprensione e coscienza questo spettacolo straordinario e appassionante consiglierei come viatico, con il poderoso catalogo Fabbri, il volume Arte e cultura di Clement Greenberg (di recente tradotto presso Allemandi). Una raccolta di saggi con i quali uno dei critici-guida nel momento cruciale di svolta nella New York degli Anni 40 narra la nascita e l'affermarsi della pittura «di tipo americano». I giovani dell'ottava strada Ne risulta chiaro lo sforzo fatto dai giovani «artisti dell'ottava strada» per liberarsi dal vassallaggio della tradizione europea, cioè parigina, dell'arte contemporanea. Esso si basava, da un lato, su una rilettura straordinariamente approfondita di Picasso e di Klee, di Matisse, di Mirò e del primo Kandinsky astratto (una rilettura che l'Europa fra le due guerre aveva rifiutato), e dall'altro su un confronto senza complessi con i profughi dall'Europa sottomessa al nazismo, i surrealisti, Mondrian, Chagall. Ma, nello stesso tempo, questo sforzo imponeva un taglio netto dalle varie culture artistiche locali, sia quelle realistiche di varia estrazione, sia quelle che si richiamavano in molti modi ai precedenti trent'anni europei fra astrazione, espressione e oggettività. Nella volontà di ampia informazione della mostra, i primi gruppi di opere illustrano questa preistoria degli Anni 30, evidenziando la varietà di proposte di numerose generazioni. L'artista più anziano è Hartley, classe 1877, vecchio campione dell'avanguardia cubista, forse inutilmente presente con una massiccia figura quasi sironiana del 1940. Assai meglio è rappresentata in forma propria, questa tradizione dell'avanguardia, attraverso la O'Kleeffe, il piccolo Dove, il Davis molto alla Léger. Sul versante realista, alla dignità anche sociale dell'eredità d'inizio secolo in Marsh e in due dei tre fratelli Soyer si contrappongono, in sostanziale modestia di pittura, con qualche intromissione fra surreale ed espressionista, i Wood e i Benton dell'«american scene». Su questo versante, è assai più felice la recente riscoperta dei paesaggi della Pennsylvania di Wyeth. La sua lucida rivisitazione dei primi romantici è in fondo lo specchio, volto al passato, del¬ la nettezza industriale urbana del «precisionista» Sheeler, che si protende - ma impregnata di letteratura - nelle solitudini urbane del fin troppo noto Hopper e, con surreale ripetitività, di Tooker. Infine, il bello ma isolato Italian Landscape di Ben Shahn fa rimpiangere la prima, insuperabile, grossa assenza, di Evergood. Non è forse necessario - tanto è violento il suo richiamo, al limite del mostruoso - invitare il visitatore a offrire uno sguardo non distratto all'invisibile capolavoro real-espressionista II ritratto di Dorian Gay, dipinto e usato per l'omonimo film di Lewin (1945) da Ivan Le Lorraine Albright, artista talmente «male¬ detto» da non fruire nemmeno della biografia in catalogo. Subito dopo, è felicissima l'idea di raggruppare gli immediati fondamenti e fondatori della rivoluzione degli Anni 40: gli immigrati europei con una storia alle spalle, come l'uomo del Bauhaus Albers, docente a quel Black Mountain College in North Carolina che sarà fucina sia dell'espressionismo astratto, con De Kooning, sia dell'astrazione totale, con Newman, e vedrà attivi anche Rauschenberg, Cage, Marc Cunningham. Sono giustissime qui le presenze di una stupenda piccola antologia, a partire dal fondamentale Giardino a Sochi del 1941, del tragico Arenile Gorky, di due grandi (ancorché tardi) Tobey, che inaugura già negli Anni 30 la sua precoce e preannunciante «scrittura» di ispirazione zen, e del meno noto matissiano Avery. Altrettanto giusta è la presenza dell'ultima contrapposizione realista-espressionistica, con i due grandi Levine, a loro modo impregnati di «americanità», nel senso di Dos Passos, di Steinbeck, di Saroyan. Da qui in avanti la mostra, svolta in spazi di massimo respiro, riflette in qualche modo simbolico la presa di potere di cui ho detto all'inizio, ma anche un più concreto, espressivo simbolo di questo potere: la rottura della di- mensione «da cavalletto», la sfida che poi cancellerà anche la distinzione fra seconda e terza dimensione, fra oggetto e ambiente. In questo senso, nei due successivi cruciali spazi in cui risuona il trionfo della pittura «di tipo americano» (Action Painting o New York School, grande astrazione) - perché veramente i colori si rispondono in risonanza sulla purità bianca delle pareti - le pur belle e complete antologie di opere non grandi delle due figure-pernio, Pollock da una parte, Newman dall'altra, risultano «indebolite». Indebolite rispetto alla drammatica felicità dell'esplosione ed espansione di colore, quasi autovivente, della maturità di De Koonnig nelle Due figure in un paesaggio del 1967 e della seconda generazione di Francis e della Frankenthaler. Un posto è giustamente offerto anche alla moglie di Pollock, Lee Krasner, mentre la presa di potere appare ormai conscia e definitiva nell'assolutezza del gesto bianco e nero di Kline e dei due contrapposti discorei di spaziocolore nei tre stupendi Rothko e nei tre altrettanto stupendi Reinhardt. La stessa, giusta e felice, dialettica caratterizza anche lo spazio successivo dedicato alle origini dell'espansione imperiale, con la Pop Art e l'astrazione totale e analitica, anche definita «Post Painterly Abstraction» da Greenberg. A questo punto intervengono scelte critiche generali in cui non sempre coincidono le idee di un curatore e di un recensore, fatto salvo il riconoscimento degli straordinari risultati complessivamente ottenuti da Attilio Codognato. Di fronte alle ottime scelte riguardanti il nodo di connessione e trasmissione fra espressionismo astratto e Pop Art rappresentato dal «New Dada» di Rauschenberg e di Johns, con adattissime opere fra Anni 50 e 60, mi sembra troppo restrittiva l'opposta scelta di una sola opera di Noland e di Morris Louis, con le assenze di Olitsky, di Barin ard, di Reichek; e discutibile la massiccia presenza di ben tre Guston. Più equilibrata, nello spazio successivo, la dialettica fra la sintetica ma robusta serie Pop con lo stupendo Dine, i grandi Rosenkuist e Wesselmann, gli esaustivi Lichtenstein e Indiana, le due fotoserigrafie di Warhol, e retrazione geometrica «a bordo duro» dei grandi quattro Stella; proprio in forza della grande forza strutturale di Stella nel reggere il confronto. Il ritorno della figura Non di squilibrio si può parlare per il grande spazio finale, dedicato all'arte di mtervento ambientale, concettuale, tecnologica degli Anni 60, a cui sta di fronte una parete dedicata all'iperrealismo di Estes e Close e al ritorno della figurazione (non Pop, ovviamente): una parete giustificata dalla completezza dell'informazione, ma non per questo più sopportabile. Nello spazio cadono letteralmente le barriere fra seconda e terza dimensione, fra operazione fìsica, illuminazione concettuale (nel senso letterale del termine; le frasi al neon di Kosuth e di Nauman), intervento effimero, come quello di giornali sparsi in terra e tinti di blu di Mei Bochner. Altro intervento apposito, fra i momenti e tappe più alte in assoluto della mostra, è quello dei tracciati a matita sul muro di Sol Lewitt, libera ripresa di una installazione del 1970. Nel grande spazio finale, con i 64 quadrati di rame di Andre e sul fondo il Moviehouse, l'ingresso di cinematografo con cassiera di Segai, culmina anche l'aspetto forse più nuovo e rivelatore della mostra: la grandezza del contributo americano alla scultura e scultura-ambiente e oggetto scultoreo, dai vecchi maestri Calder, Cornell, Noguchi, Kiesler, Roszak alla generazione della Nevelson, della Bourgeois, alla Pop e affine di Oldenbourg e di Chamberlain, fino alla dura sintesi minimale di Morris, di Judd, di Serra. Marco Rosei 1930-1970 L'arte americana al potere A fianco, «Dylaby» di Robert Rauschenberg (1962). Nell'immagine grande, «Flag above white» di Jasper Johns (1954)