Sfida all'uomo del Cremlino

Sfida all'uomo del Cremlino I più grandi campioni del mondo nel torneo di Reggio Emilia SCACCHI Sfida all'uomo del Cremlino Garry Kasparov, il campione mondiale di scacchi che fa ricordare Bobby Fischer e che è amico di Boris Eltsin, è stato a un passo dal soccombere in un torneo di eccezionale livello, il più importante mai organizzato a casa nostra, pari nel mondo alle grandi sfide degli anni d'oro (Pietroburgo 1914 o New York 1924). E' il Torneo di Capodanno di Reggio Emilia, dal 27 dicembre al 6 gennaio, che vede in lizza dieci grandi maestri in testa ai punteggi internazionali, come quando i primi tennisti della classifica Atp s'incontrano nel Master. Nel secondo turno, Garry Kasparov, 29 anni, ha perso contro la stella indiana Viswanathan Anand, 22 anni, il più giovane dei dieci in lizza e l'unico che non sia di scuola sovietica. Il campione mondiale aveva già subito da Anand una sconfitta che a marzo gli era costata il successo nel prestigioso torneo di Linares. In questa rivincita ha impostato una partita tutta d'attacco, subendo un controgioco, con il Re isolato tra la Donna e una Torre avversarie. «No, Kasparov non è Fischer», dice dall'alto dei suoi ottant'anni Michail Botvinnik, che detenne il titolo per quasi quindici anni (è stato invitato alla manifestazione con altri ex campioni del passato). «Per Fischer gli scacchi erano tutto, per Kasparov gli scacchi sono una professione». Ciò non toglie che Kasparov sia il primo scacchista che ricrea attorno a sé l'attenzione e l'atmosfera che creava Fischer, l'americano geniale e nevrotico che negli Anni Settanta infranse il muro della scuola sovietica, scomparendo poi in un isolamento che ne ha radicato il mito, come una Garbo o come un Salinger. Infatti Kasparov, come Fischer - o Borg nel tennis, o Messner nell'alpinismo - è uno di quei rari campioni che superano i confini della loro disciplina e accendono l'interesse del grande pubblico, perché la loro stagione coincide con trasformazioni politiche, sociali o culturali di cui anche uno sport o un gioco diventano simbolo. Fischer rappresentava l'individualità contro il collettivismo, la libertà contro la burocrazia. Kasparov rappresenta la voglia di rivincita, la voglia di America del nuovo mondo eltsiniano uscito dalle ceneri del gorbacio- vismo. Infatti Kasparov ha rinnovato il gioco, restituendo spazio all'improvvisazione contro l'invadenza della teoria. Non a caso Botvinnik dice che Kasparov ha «un grande intuito per la combinazione ma non un grande senso della posizione». E il suo rinnovamento Kasparov lo ha attuato con un pragmatismo da professionista. Quando scenderà dal trono, di certo non sarà per isolarsi. Diventerà un politico, un ambasciatore di Eltsin. «Ma per ora - dice Botvinnik - Kasparov non vuole neppure pensare all'idea di non essere più il numero uno». Guardiamo Kasparov contro Beljavski nel sesto turno. Beljavski sembra Brandauer in un film di Herzog: indossa un doppiopetto con sparato e papillon, guarda la scacchiera con un garbato distacco. Oppone un gioco elegante ma fragile alle profonde combinazioni del campione mondiale, finché tra la ventesima e la ventiseiesima mossa sbaglia in pieno una manovra col Cavallo e abbandona sorridendo. Kasparov si protende sulla scacchiera, inarcando la schiena e tendendo la stoffa della giacca sportiva di ottimo taglio. E' una specie di molla, ci ricorda l'immagine di Cari Lewis ai blocchi di partenza. Ogni tanto passeggia scattante, avanti e indietro lungo la fila dei cinque tavoli. Non rivolge mai gli occhi al pubblico, lancia solo qualche sguardo alla moglie seduta in prima fila. A Reggio Emilia ha ritrovato il suo tradizionale rivale: Anatoly Karpov. Campione mondiale dal 1975 al 1984, amatissimo dagli scacchisti per il suo gioco freddo e cerebrale, non ha mai scaldato il cuore del grande pubblico, anche per ragioni politiche, essendo i suoi avversari per il titolo prima l'esule Korchnoi poi l'«a- mericano» Kasparov, mentre Karpov era l'uomo di Gorbaciov e della perestrojka, del rinnovamento nella fedeltà. Anch'egli è stato dimesso, non solo da Kasparov ma dal corso degli eventi, e forse non si è ancora adattato al ruolo di numero due. Con gli occhi arrossati nel volto glabro, con i capelli lunghi sul collo della giacca, potrebbe essere un Oblomov o uscire da una pagina di Dostoevskij. Botvinnik, che è stato il suo maestro, dice: «A quarantanni non è più il giocatore d'una volta». L'incontro fra Karpov e Kasparov, giocato al terzo turno, si è chiuso con una patta (la 116a!) dopo sessanta mosse. Kasparov era in vantaggio, ma Karpov si è difeso con i denti. Il giorno dopo, però, si è suicidato, perdendo contro Alexander Khalifman, un ucraino venticinquenne, imperturbabile come il principe An- drej di tolstoiana memoria, che si è trasferito a Francoforte e gioca con la Germania. In ritardo di tempo, Karpov ha avuto una serie di incertezze. In realtà si è trovato in ritardo un po' in tutte le partite. Qualcuno azzarda che sia il suo scacchismo concettoso a richiedergli un tempo di riflessione eccessivo. Ma il ritmo asfissiante del torneo lo ha messo a dura prova. Non lo si vede in giro. Quando non gioca, si chiude in camera. Ha bisogno di dormire, ma soprattutto di recuperare la voglia di vincere. Il quarto turno di gioco, nel pomeriggio di lunedì 30, è stato esplosivo. Perché ha visto, oltre alla sconfìtta di Karpov, anche quella di Anand, il vincitore di Kasparov, abilmente intrappolato in un finale perdente dalla vecchia volpe Mihail Gurevic, che da un anno si è trasferito a Bruxelles, accettando di giocare per il Belgio, e che fa parte dell'equipe di analizzatori del campione del mondo. Il quale, quello stesso lunedì, riprendeva il controllo del torneo, battendo seccamente con uno dei suoi attacchi travolgenti Vassili Ivanciuk, ucraino ventitreenne, biondo e atletico, che gioca con un'aria spaesata da soldato dell'Armata Rossa in un film di Tarkowski. Karpov lo indicò come suo delfino e Kasparov lo considerava il suo nuovo sfidante. Ma qui non ha brillato. Vincerà, dunque, il numero uno, il campione di Baku, l'uomo di Eltsin, che più di ogni altro scarica nelle partite la voglia di affermarsi? E' molto probabile, anche se non è sicuro. A contendergli il successo sono, forse un po' a sorpresa, due esponenti di una nuova generazione di scacchisti, almeno in apparenza molto diversi da lui. Uno è l'indiano Anand, l'altro è Boris Ghelfand, 23 anni, di Minsk. Diversi da Kasparov perché, in un certo senso, «normali». Anand è slanciato, gentile, vegetariano e benestante, indossa nelle partite giubbe e camicie dai morbidi colori e scarpe da ginnastica, confessa di sognare la sfida per il titolo, dopo la sconfitta da Gurevic ci ha detto: «Non si può essere sempre concentrati al cento per cento». Ghelfand sembra uno studente che passa di lì per caso: è un tipo dinoccolato, alto e magro, con un'aria ironica, a metà strada, per dare l'idea, tra Woody Alien e un antieroe di Singer; è il solo giocatore che abbiamo visto ridacchiare tra sé e sé durante gli incontri. A torneo concluso, queste immagini si saranno disperse. Come si sarà dispersa quella di Valeri Salov, il piccolo Salov che è coetaneo di Kasparov ma sembra un liceale, e di Lev Polugaevski, il più anziano con i suoi 58 anni, prolifico autore di testi scacchistici, che si giocano la loro partita per sei ore di fila, lasciandola sospesa, benché sia ininfluente per la classifica; fra una mossa e l'altra Salov si raschia la gola e cammina su e giù frettolosamente, Polugaevski passeggia amabilmente sotto braccio a Karpov. Al di qua dei cordoni divisori, il pubblico guarda in silenzio, come attraverso i vetri di un acquario. Quel che resterà saranno la classifica e la trascrizione delle partite, anche se gli scacchi sono soprattutto un concentrato di vita: spinte emotive e psichiche, passioni, euforie, depressioni. Ma è un mondo schizofrenico, in cui i giocatori devono programmaticamente rimuovere tutto ciò che può turbare la concentrazione, essenziale per mantenere per ore e ore la visione del gioco e la capacità combinatoria. Qui, per esempio, sui tavoli di gioco non c'è alcuna bandierina nazionale: non le hanno volute per tenere fuori della porta la politica. La disgregazione della realtà sovietica si specchia nella diaspora dei giocatori: se Kasparov attendeva la fine dell'Urss, Karpov quasi certamente non l'approva; Khalifman è diventato tedesco, Salov è ingaggiato in Spagna, Gurevic vive in Belgio, Polugaevski ha giocato in Francia. (Nel torneo B, invece, si vedono esposte bandierine croate nuove di fiamma, quella dell'Ucraina è stata fatta con i pennarelli, quella della Bielorussia è stata cucita alla buona). Alla fine i primi cinque si divideranno un monte premi di venti milioni, mentre gli altri intascheranno centomila lire a punto. Gli ingaggi vanno da qualche migliaio di dollari a diecimila circa per Kasparov. Siamo ben lontani dai compensi di tennisti o degli atleti! La sera dell'ultimo dell'anno il direttore del torneo, Maurizio Davolio Mar a ni, ha organizzato un po' di festa in famiglia nelle sale del Grand Hotel Astoria, con un pianoforte a coda e il «Duo di Modena» Malagoli-Guerra. Il grande maestro Portiseli (torneo B) si è esibito in una cavatina, lo stesso Davolio Marani ha suonato Johnny Guitar. In camera era rimasto solo Beljavski, che voleva concentrarsi sulla partita dell'indomani. Infatti a Capodanno batteva Salov, conquistando l'unica sua vittoria. Alberto Papuzzi Una vita sulla scacchiera: tensioni, nevrosi e solitudine Nelle immagini in alto, da sinistra a destra, Boris Ghelfand, Lev Polugaevski, Garry Kasparov e Anatoly Karpov durante una partita, la nuova stella, l'indiano Viswanathan Anand, e Alexander Beljavski DAL NOSTRO INVIATO DAL NOSTRO INVIATO