«Fermate il massacro a Mogadiscio» di Francesco Fornari

«Fermate il massacro a Mogadiscio» Continua la guerra del dopo-Barre, un medico italiano: «I cadaveri marciscono in strada» «Fermate il massacro a Mogadiscio» L'inviato Onu tenta di mediare fra le tribù in lotta MOGADISCIO. E' passato poco più di un anno da quando Siad Barre è stato cacciato da Mogadiscio, ma in Somalia le armi sparano ancora. La guerra civile scatenatasi tra i clan, più sanguinosa di quella tra serbi e croati in Jugoslavia, è un conflitto dimenticato ma i morti si moltiplicano. Oltre ventimila sarebbero le vittime di questa mattanza che si trascina da dieci mesi. In 45 giorni di combattimenti novemila persone hanno perso la vita, più di 11 mila sono rimaste ferite. Cifre agghiaccianti che da sole, tuttavia, non bastano a descrivere la tragica realtà di un Paese ormai allo stremo. Willy Huber, un altoatesino che dirige l'ospedale «Sos Children», uno dei quattro ancora in grado di funzionare, anche se fra mille difficoltà perché il materiale sanitario scarseggia, dice che «ai morti nei combattimenti bisogna aggiungere le migliaia di persone, soprattutto bambini, che muoiono giorno dopo giorno di fame e di stenti». La popolazione di Mogadiscio è alla disperazione. Manca la luce, non c'è cibo, non c'è acqua. Per bere le donne vanno a raccogliere l'acqua putrida delle pozzanghere e rischiano la vita ogni volta perché dai tetti i cecchini sparano su qualunque cosa si muova. In città non si trova più nulla da mangiare. Mancano frutta e verdura, i forni del pane non funzionano, carne, uova e latte sono introvabili e quel poco che c'è viene venduto a prezzi folli. Dall'estero non arrivano aiuti: una nave della Croce Rossa, con 800 tonnellate di viveri, è stata presa a cannonate mentre cercava di entrare in porto ed è stata costretta a tornare indietro. Anche nei villaggi la situazione si sta facendo critica: migliaia di persone sono fuggite dall'inferno di Mogadiscio cercando rifugio nei campi e le scorte alimentari si sono esaurite in un batter d'occhio. Secondo fonti Onu, 4,5 milioni di persone, su una popolazione di 6, sono alla fame. Mogadiscio è una città distrutta, percorsa da bande di armati che entrano nelle case, saccheggiano, violentano, ammazzano. Sono loro i veri padroni di questa capitale agonizzante, dove ogni giorno sulle rovine cadono granate e bombe di mortaio sparate dai soldati del presidente ad interim Ali Mahdi e quelli del leader del Congresso Unito Somalo, generale Mohammed Farah Haydid, che si danno battaglia senza quartiere. Negli ospedali, sistemati per terra nei corridoi, nei cortili, i feriti sono migliaia, assistiti dai volontari della Croce Rossa Internazionale e dai «Medici senza frontiere», che però non riescono più a far fronte alle necessità perché i medicinali sono esauriti, mancano bende, anti- biotici, il plasma. I quattro ospedali, inoltre, sono nei quartieri controllati dalle truppe di Haydid, mentre in quelli tenuti dagli uomini del presidente Ali Mahdi non ci sono né strutture né medici. «Impossibile fare il conto dei feriti - dice Willy Huber - perché non si potrà mai sapere quanti si trovano in zone dove non è possibile raggiungerli, e non c'è nessuno in grado di assisterli». Abbandonati fra le macerie, in mezzo alla strada, in attesa di un soccorso che non arriverà. Venerdì è arrivato a Mogadiscio James Jonah, incaricato dal segretario generale dell'Orni di tentare una mediazione fra le due parti in conflitto. Un compito difficile se non impossibile. Fin dall'arrivo la missione ha trovato ostacoli: il suo aereo non ha avuto il permesso di atterrare all'aeroporto di Mogadiscio ed è stato costretto a scendere su una pista erbosa ad un centinaio di chilometri dalla capitale. Jonah si è incontrato col generale Haydid: il colloquio si è protratto per tre ore ma, come ha detto il vicesegretario dell'Onu al rientro a Nairobi, «Haydid non ha voluto nemmeno parlare di tregua d'armi perché questa, afferma, esiste già nei territori controllati dalle sue forze». L'unica concessione ottenuta è stata «la designazione degli ospedali come zone di pace, per consentire ai soccorritori di curare i feriti delle due parti». L'inviato delle Nazioni Unite ieri si è recato ad Hargeisa, capitale dell'ex Somaliland britannico mentre oggi è atteso a Chisimaio, nel Sud, da dove dovrebbe proseguire per Mogadiscio per incontrarsi con Ali Mahdi (cosa che non gli era riuscita venerdì per l'infuriare della battaglia lungo la «linea verde» che separa i miliziani delle due fazioni) e, forse, di nuovo con Haydid. L'Organizzazione per l'Unità Africana (Oua) e la Lega Araba (che si riunirà oggi al Cairo in sessione straordinaria), si sono mosse a loro volta per cercare di riportare la pace in questo travagliato Paese del Corno d'Africa. All'origine del sanguinoso conflitto sono le rivalità fra la tribù degli abgal, che appoggiano il presidente Mahdi, e quella degli aberghidir, schierati col generale Haydid. Un odio tribale che non sembra intendere ragioni: un mese fa i notabili degli altri gruppi etnici che vivono a Mogadiscio (rer-hamar, asharif, bravani, somali di origine araba, indiana e pachistana), si sono incontrati con Mahdi e Haydid per cercare di trovare un accordo che mettesse fine alla carneficina. Ma inutilmente. E sono proprio questi gruppi etnici neutrali a subire di più l'orrore della guerra. Francesco Fornari I cadaveri restano nelle strade di Mogadiscio per settimane: i morti sono novemila negli ultimi 45 giorni, ventimila nel '91

Persone citate: Ali Mahdi, James Jonah, Mohammed Farah, Siad Barre, Willy Huber