Fine millennio con Spengler di Gianni Vattimo

Fine millennio con Spengler Il profeta del tramonto Fine millennio con Spengler N" ON è certamente solo un caso, un accidente della programmazione editoriale, il fatto che 1 l'editore Guanda abbia mandato in libreria proprio in questi tempi di strenne la ristampa della traduzione italiana del Tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler, con una nuova presentazione di Stefano Zecchi. Anzitutto per la sua mole, il libro di Spengler deve essere apparso una strenna ideale. Ma non solo: a Natale e a Capodanno è fin troppo ovvio regalare, regalarsi, leggersi o rileggersi un libro come questo, denso com'è di richiami al destino, della nostra civiltà e insieme di noi individui che vi apparteniamo. Tuttavia, ben oltre questi motivi di calendario, l'opera di Spengler riveste una (vorremmo dire pericolosa) attualità; non soddisfa soltanto gli stati d'animo apocalittico-crepuscolari che in genere ci accompagnano nelle ricorrenze di fine anno, oggi intensificati dall'avvicinarsi della fine del millennio. Rischia anche di apparire a molti come l'alimento spirituale ideale in un'epoca di fine delle ideologie e di conseguente vuoto di prospettive universali. La visione «biologica» Nei suoi tratti generali, la tesi di Spengler è nota: la visione lineare della storia che la nostra cultura ha finora trovato ovvia, quella che vede lo sviluppo della civiltà articolato nelle tre grandi fasi di antichità, medioevo, età moderna, pecca di un ingenuo eurocentrismo e di uno sconfinato ottimismo. Considera infatti tutte le altre culture solo come fasi preparatorie dell'unica vera civiltà, che sarebbe quella euro-americana; e, soprattutto, si figura per questa civiltà un futuro di progresso indefinito. Ma per poco che si cerchi di liberarsi da questa visione altamente soggettiva (centrata sul «noi» occidentale) della storia, è fatale che le varie civiltà, i vari mondi culturali che proprio l'Occidente per primo è stato capace di fare oggetto di ricerca e di studio storico e antropologico, ci appaiano come entità autonome, ciascuna retta da una sua logica specifica, da un suo sviluppo proprio, che non si lascia ridurre alla storia centrata sull'Occidente. Per pensare questa molteplicità, Spengler propone di guardare alle varie civiltà come a organismi viventi dotati di un finalismo interno; come un animale o una pianta, una civiltà ha un'infanzia, una giovinezza, una maturità e, infine, invecchia e muore. Le somiglianze tra le civiltà, che hanno ispirato la falsa idea di un corso storico unitario, si spiegano invece come analogie morfologiche: le civiltà si somigliano in quanto certi caratteri strutturali delle varie età che esse attraversano sono identici in tutte, anche se con aspetti e contenuti diversi; l'imperialismo del secolo decimonono europeo, per esempio, è strutturalmente lo stesso che il cosmopolitismo dell'impero romano, poiché si tratta di due civiltà che sono giunte alla stessa fase di sviluppo, quella della, vecchiaia in cui non si crea più, ma ci si limita all'espansione (territoriale, economica eccetera). Queste tesi di Spengler - e non solo queste - sono piaciuteai movimenti politici di destra, anzitutto al nazismo, perché facevano del militarismo, dell'idea dello Stato forte e dell'espansionismo un fatto di desti- no: la nostra civiltà al tramonto, infatti, non può far altro che espandersi militarmente ed economicamente. Ma a parte queste implicazioni - che tuttavia devono far riflettere chi si volga con troppa simpatia a Spengler - la visione «biologica» delle civiltà è davvero la sola alternativa possibile all'idea eurocentrica della storia lineare come storia di un'unica civiltà umana che sarebbe poi la nostra? Che non sia possibile una visione unitaria del mondo e della storia lo sappiamo fin troppo bene: non solo perché abbiamo imparato a conoscere le molteplici culture e i loro sistemi di valori, irriducibili ai nostri ma non per questo meno degni di rispetto; ma anche perché la vita individuale ci insegna che il colore e la forma del mondo sono profondamente diversi, anche per una stessa persona, a seconda degli stati d'animo, dell'età, delle diverse esperienze. Facciamo fatica anche solo a ricordarci di come ci apparivano le cose in un'altra - e talvolta più felice - età della nostra vita, e non riusciamo a stabilire una continuità. L'idea di una storia lineare e progressiva è un po' come l'idea che la vecchiaia sia un'età più matura e più saggia. Ma è fin troppo chiaro che i vecchi non sono per forza più saggi dei giovani, sono solo diversi, perché guardano le cose da un altro punto di vista. Sono, questi, argomenti a fa vore di Spengler? Non proprio, giacché non tutti i giovani sono uguali, e nemmeno tutti i vec chi. Una volta negato che ci sia un unico corso della storia, non si vede perché dovremmo ammettere che ci siano invece delle civiltà come entità unitarie; l'analogia che Spengler stabilisce tra la vita di una cultura e la vita di un organismo vivente è suggestiva, ma del tutto arbitraria. E poi: se dobbiamo ammettere che ci sia una continuità di significato tra momenti successivi all'interno di una certa civiltà, non si vede perché non potremmo ammettere una tale continuità anche tra civiltà diverse. L'unica saggezza Questi argomenti non bastano certo a farci ritrovare la fede nella storia come corso unitario, progressivo o non che sia; ma almeno dovrebbero seminare qualche dubbio negli ammiratori incondizionati di Spengler, che si moltiplicano in modo piuttosto inquietante e acritico. Se vogliamo essere fedeli all'esperienza del pluralismo e del relativismo che la nostra civiltà - e solo essa, a quanto pare - ha fatto negli ultimi secoli, e su cui anche Spengler insiste, dovremo probabilmente rinunciare anche al suo schema biologistico: non ci sono civiltà-organismi fornite di destini che determinino gli individui e le società; ci sono molteplici modi di vedere e vivere la storia, che danno luogo a «raggruppamenti» sempre imprevedibili - come un movimento punk, la comunità degli ammiratori di un certo artista, un partito politico, un ordine religioso, uno Stato. L'esserci resi conto di questo irresistibile pluralismo, e dell'imperativo della tolleranza che esso porta con sé, è forse l'unica saggezza che possiamo dire di aver acquistato, l'unico, paradossale, senso «unitario» della storia a cui possiamo, anzi non possiamo fare a meno di pensare. Gianni Vattimo