La scuola come una «Montagna incantata» non demonizzate il rottweiler di Giorgio Calcagno

gano mo^J lettere AL GIORNALE La scuola come una «Montagna incantata»; non demonizzate il rottweiler I vertici dello Stato da rieducare alla legalità Mi rivolgo alla gentile signora Jervolino. Sono un'insegnante di lettere in un istituto tecnico industriale, ho quasi 53 anni, 30 dei quali passati nella scuola. Ho ricevuto, in quanto referente alla salute, la circolare n. 302 in cui lei parla di lotta alla mafia e educazione alla legalità. Nella mia scuola, con il progetto di prevenzione educativa previsto dalla legge 162, abbiamo anticipato il ministero di almeno sei mesi e chissà in quante altre scuole ciò è avvenuto! Ho letto con attenzione, incredulità e sconforto la sua circolare. Mentre leggevo, cercavo di immaginare lei, gentile signora, e mi domandavo se lei, scrivendo, si fosse chiesta quale sarebbe stato l'effetto delle sue parole sui destinatari. Ebbene, è un effetto terribile. Cercherò di spiegarmi con chiarezza: mi sembra di vivere in un mondo di pazzi, perduti i punti di orientamento. La vita di ognuno di noi è inserita in un contesto da cui l'oscuro lavoro del singolo acquista senso; per me tale contesto è lo Stato, cui, con grande commozione, ho giurato fedeltà. Ma chi è stato infedele? Chi è venuto meno ai suoi impegni solennemente e pubblicamente assunti? Chi si è incaricato di far apparire dei poveri illusi gli insegnanti e il loro messaggio di educazione, senso dello Stato, fedeltà ai valori della civile convivenza smentendoli e delegittimandoli? Chi è venuto meno al patto sociale? Chi ha dimenticato che il rispetto delle leggi è «premessa indispensabile... come sostegno operativo quotidiano»? Chi ha protetto, coperto, sostenuto i suoi servitori infedeli? Alcuni degli uomini rappresentativi dello Stato sono indagati per delitti infamanti e probabilmente da loro stanno venendo queste ondate di fango che confondono le persone semplici come me, provocando tanto smarrimento e tanta angoscia. L'educazione alla legalità è un progetto importante, ma deve investire i vertici dello Stato per co¬ stituire quella cornice di certezza senza la quale la scuola continua a essere una Montagna incantata, un mondo sospeso rispetto al mondo reale dove vigono invece regole feroci basate sulla sopraffazione, sulla menzogna, sull'illegalità, cui proprio i ministri della Repubblica si sono conformati. Annunciata Olivieri Feltre (Belluno) Ortoleva: la storia della tv non si fa con gli slogan Leggo sulla Stampa di ieri un articolo di Alberto Papuzzi che mi riguarda: «Lo storico Ortoleva rivaluta gli anni di Bernabei. Tv lottizzata a fin di bene», accompagnato da un commento (se così si può dire) di Curzio Maltese, «Ripensamenti in corso». Già il titolo dell'articolo di Papuzzi è molto deformante (a differenza dell'articolo, che riprende abbastanza accuratamente il mio lavoro). Il commento di Maltese, poi, è caricaturale fino al grottesco: mi si rappresenta come uno che sogna di tornare all'epoca del controllo democristiano sulla tv, uno che confonde il bernabeismo con la Cultura. Che dire? Non pretendo che i titoli rispecchino con precisione i concetti esposti dagli articoli, ma potrebbero almeno tentare di avvicinarvisi. Non pretendo che Maltese si affatichi a leggere i miei lavori storiografici, ma sarebbe bastato che leggesse lo stesso articolo pubblicato accanto al suo senza fermarsi al titolo, per evitare una polemica così vacua. L'intento delle mie ricerche, infatti, è tutt'altro che quello di «rivalutare» qualcuno, e tanto meno Bernabei, o di difendere il sistema della lottizzazione tra i partiti: è quello di capire, come sia ora di cominciare a fare, i meccanismi effettivi che hanno mosso, in questi anni, la macchina televisiva. La televisione è un immenso apparato industriale-culturale per il quale hanno lavorato, in questi decenni, decine di migliaia di persone, intellettuali (tra questi, molti dei maggiori intellettuali italiani), giornalisti, tecnici, registi. Tutte queste categorie hanno svolto il loro lavoro producendo migliaia di programmi molto diversi tra loro e hanno fatto, nel bene e nel male, i propri interessi: hanno anche loro, apertamente o implicitamente, fatto politica. La storia della televisione italiana è fatta di decenni di conflitti e di negoziati, di spartizioni e di tradimenti. I partiti di governo (e non solo) si sono fatti generalmente notare per la loro avidità di potere e di posti più che per la loro competenza; d'altra parte, il loro intervento è stato spesso invocato dall'interno del sistema televisivo, pubblico e privato, per erogare risorse, mediare conflitti, concedere appoggi. Voglio dire con questo che la lottizzazione è stata «a fin di bene», o che siccome tanti erano colpevoli nessuno lo era? Al contrario: vorrei solo ricordare che meccanismi di corruzione e di negoziazione di questo tipo non sono attribuibili solo alla volontà di questo o quel singolo leader, e che il sistema ha radici profonde. Capisco che questa lettura della storia possa apparire fastidiosamente complicata e difficile da sintetizzare, e che riassumerla in due battute polemiche sia una forte tentazione, ma a volte, non sempre, i fenomeni complessi richiedono spiegazioni articolate. Proprio la storia della televisione italiana dimostra fra le altre cose che il tradurre le questioni complesse in duelli di slogan non fa avanzare né il dibattito politico né la consapevolezza del pubblico. Peppino Ortoleva, Firenze Perché un cane sbrana il suo padrone Sono un vecchio rottweiler. Vecchio e triste. Il mio padrone mi ha raccontato che tre cani della mia stessa razza hanno sbranato a Imola una signora che era stata incaricata di portar loro da mangiare. Mi ha detto pure che vivevano da soli in una villa, mentre i loro padroni, finita la stagione dei sollazzi, se ne erano andati al calduccio della loro casa di città. Il fatto mi turba, ma, anche a costo di apparire cinico, non mi meraviglia. Quella povera donna sarà anche stata gentile, ma per quei miei colleghi altro non era che una estranea. A me, che vivo in una famiglia con due bambini e un'altra cagna, mia figlia (sono padre anche io e in procinto di diventare nonno), un fatto del genere non capiterebbe. I miei padroni, infatti, non mi hanno mai lasciato solo o affidato alle cure di estranei. Sono stato abituato fin da piccolo a sentirmi parte della famiglia e non mi offendo se, insieme con mia figlia, vengo chiuso quando i miei padroni ricevono i loro amici. Il fatto che io sia un famigerato, vecchio e triste rottweiler, non mi impedisce di protestare contro quelle inappellabili sentenze di condanna emesse da un esercito di esperti che sbucano fuori solo quando accade il «fattaccio». Il mio padrone mi ha detto che come rottweiler - sono stato definito killer, cane assassino, frutto di manipolazioni genetiche. Sarò anche vecchio, ma perché dire che i rottweiler sono il frutto di manipolazioni genetiche quando, invece, sono una delle razze più antiche ancora in circolazione? Se potessi andare in giro senza seminare il terrore, inviterei uno dei tanti esperti dell'ultima ora a visitare i miei colleghi che lavorano (e sape ste quanto!) nell'esercito austriaco o presso la polizia bavarese. E sa peste quanti bambini sono stati salvati da loro... solo che nessuno lo dice. Cordialmente vostro, Locky, Palermo (Sfogo raccolto da Giovanni Chiappisi padrone non pentito di due rottweiler) Grazie di tutto a Ceronetti Grazie a Guido Ceronetti; grazie per «Oggi», per «Vaselina sinfonica d'inverno», per «Tamburi di latta», per «Ugone» e per quant'altro vorrà ancora scrivere in futuro. Mi compiaccio che sia seguito da tanti, peccato che non altrettanto sia compreso, come dimostrano le reazioni all'articolo scherzoso sul nuovo nome (Esperia) da dare all'I talia e sull'unità nazionale. Grazie inoltre ad altri come lui che su La Stampa dibattono economia, politica, costume, sport Contribuiscono a fare di questo quotidiano un giornale unico. Pier Giovanni Leone San Maurizio Canavese «O Roma o Orte»: Maccari vittima di una «m» Gli sberleffi, con Maccari, non finiscono mai. Nel mio articolo «C'è Maccari a Tangentopoli», uscito ieri mattina, è apparso uno slogan «O Roma o morte» che, durante la marcia su Roma, lo scrittore non si sognò di pronunciare. Prego i lettori di credere che la frase di Maccari - da me riferita - era «O Roma o Orte». Ma è pericoloso essere anticonformista, anche postumo. C'è sempre, annidato, il pericolo di una «m». Giorgio Calcagno