BETLEMME le Messe dell'Intifada

fra musulmani e ebrei r A c c.,- - T ' Il primo Natale di pace di padre Peter Madras, parroco palestinese di Nostra Signora di Fatima ~ BETLEMME le Messe deWIntifada ABETLEMME padre Peter Madros non pare vero: questo Natale gli israeliani hanno porta to via le camionette dalla sua parrocchia. Bisogna andare a un chilometro di distanza, nella piazza di Betlemme dove sorge la chiesa della Natività per ritrovare il clima vecchio, quello delì'Intifada con tanti soldati per strada, sui tetti, attenti che nella confusione della festa non salti fuori qualcuno che, gridando Aliatiti ahbar, faccia fuori un alto prelato, un pellegrino o un ufficiale israeliano. Ma Madros, parroco di Nostra Signora di Fatima a Beit Zahur, un sobborgo di Betlemme, è commosso. E quando ha letto, durante la Messa di mezzanotte, in arabo ai suoi 900 parrocchiani: «Be smil Haab, ual Eban, ual Rush al Kudos», in nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, gli sono venuti i brividi. I suoi occhi scuri, rotondi e tristi di intellettuale palestinese cristiano, sono cerchiati da una condizione che prosaicamente si disegna al cronista come quella di una fettina di companatico dentro un sandwich. Centoquarantamila cristiani palestinesi su due milioni di palestinesi musulmani nel toast bollente degli israeliani da una parte e dei fratelli arabi dall'altra. «Gli ebrei sono un popolo bellissimo, ma egoista», lieve sospira don Madros; «E ho detto al patriarca Michel Sabbah che l'accordo di principio sulla libertà di fede (io preferisco chiamarlo così piuttosto che il riconoscimento dello Stato d'Israele) noi palestinesi di base non lo apprezziamo. Noi vogliamo che sia almeno sincronizzato con il riconoscimento di uno Stato palestinese e della Giordania... Troppa fretta, altrimenti. Ora i musulmani diranno di nuovo che siamo dei traditori». Padre Peter Madros è l'esempio vivente del funambolismo e anche della passione cocente necessaria ai cristiani palestinesi. Ha dipinto dei colori della bandiera palestinese, nero, bianco, rosso e verde, i cancelli e le colombe che decorano la parrocchia. Da lui, quando andiamo a trovarlo, si sta svolgendo addirittura un'infuocata e molto affollata conferenza di Abdel Shafi, ovvero il vecchio capo della delegazione palestinese fin dal suo debutto a Madrid. Madros ha seppellito varie giovani vittime dell'Intifada; il suo cuore anela allo Stato palestinese. Tuttavia come potrebbe dimenticare gli ordigni esplosivi di marca integralista islamica che esplodono periodicamente nelle chiese, le croci divelte in vetta ai campanili? Difficile anche dimenticare le aggressioni anticristiane lungo la via dolorosa durante le processioni gerosolimi- tane della sua infanzia, sotto la dominazione giordana: «Quando ero piccolo, e i musulmani ci saltavano intorno, prendevano in giro la crocefissione, pareva loro un evento blasfemo, ridicolo». E ancora prima nel tempo, come scordare la terribile persecuzione turca, la peggiore che i cristiani abbiano mai patito in Medio Oriente, quando la zona fu svuotata. Molti cattolici, direttisi in America Latina, furono per ghiribizzo della sto- ria chiamati «turcos». dOTlO«A tutt'oggi», Madros dSeuS^S gli ar^JSZicSZ, che vanche i nostri giovani cristiani sono costretti a farne parametro di grammatica e sintassi essenziali». Non solo: i libri di storia in arabo hanno aggiunto al livore inglese protestante e anticattolico un di più musulmano che fa dei preti feroci colonizzatori, evangelizzatori con la spada sguainata. «Pretacci!», sorride triste padre Peter, «Mentre, per ironia della sorte, proprio ogni forma di evangelizzazione ci è fra m vietata non solo dagli arabi, ma anche dagli israeliani, contrari come sono alle conversioni. E inoltre esageratamente secolari in maggioranza, nel loro costume di vita». E si lamenta, padre Madros, che l'occupazione israeliana, oltre all'oppressione politica, abbia portato un rilassamento dei costumi per cui le ragazze si danno troppo da fare, le coppie si baciano per strada, i matrimoni si sfaldano. «In questo clima di rilassatezza dovuta all'occupazione, le nostre donne neanche si peritano di andarsi a sposare con dei musulmani, abbandonando la fede di Cristo... La nostra comunità, così, diventa sempre più esigua». Come un memento vivente della difficile sorte dei cristiani, accanto a padre Peter vive un anziano pretone maronita, padre Mansur, che, fuggito dal Libano, porta con sé memorie terribili: «Ho visto con i miei occhi i cristiani infilzati e scuoiati dai musulmani». E si lamenta e infuria a lungo sull'intolleranza dei propri vicini, sull'indifferenza degli israeliani, sul fuoco incrociato di violenza. E mentre lo fa, padre Madros, nella canonica, sotto l'albero di Natale, interloquisce ripetendo con monotona e decisa convinzione guardandolo di sotto in su: «Sì, ma noi siamo palestinesi, siamo arabi, il nostro posto è da una parte sola». Madros lo sa dai tempi dell'/nti/ada quando, nominato parroco da poco, trovò già una comunità in rivolta: «Ero all'inizio della mia vita di pastore di Beit Zahur e ancora fresco del Seminario Maggiore di Roma, dove presi le mie due lauree in teologia biblica e in scienze bibliche con padre Ratzinger. D'un tratto, la mia comunità si gettò all'assalto del municipio per restituire a forza tutti i documenti israeliani di identità e di viaggio, e per affermare il rifiuto di pagare le tasse. Fui trascinato così nella cosiddetta "campagna delle tasse" e mi trovai a partecipare alYlntifada della rivolta fiscale che assunse toni terribilmente drammatici. Là mi resi conto che il mio ruolo di prete palestinese m'imponeva di essere un punto di riferimento per tutti i miei parrocchiani. Per settimane le autorità israeliane chiusero Beit Zahur, il coprifuoco durò tredici giorni; in cambio delle tasse non pagate, la popolazione subì un pesante sequestro di beni. Due soldati israeliani furono uccisi in quel periodo. La nostra gente moriva di fame. I tre patriarchi cristiani volevano venire da noi con tre camion di viveri, ma la Sicurezza pose condizioni impossibili da superare. Allora io trovai dei fondi, duemila shekel da parte della Caritas, e duemila mar¬ chia ostra e» chi da parte della curia; anche gli americani e i canadesi ci dettero una mano. Così, in canonica, organizzai stufe, coperte, vestiti e cibo per i bambini. E la domenica 5 novembre dell'89, alla spicciolata, giunsero ebrei, cristiani e musulmani da tutto il Paese per pregare insieme a noi. Diciassette rabbini tentarono di entrare a Beit Zahur, ma i soldati non glielo permisero. Per me fu il periodo in cui mi resi finalmente conto che, con tutte le difficoltà che questo può comportare per un cristiano, pure Ylntifada era la mia battaglia; può darsi che in uno Stato palestinese, adesso, ai cristiani si preparino tempi non facili. Ma sono difficoltà nostre, interne alla nostra vicenda, e non derivate da un altro popolo, a noi estraneo. Per il futuro, ho fiducia anche che l'esperienza palestinese si dimostrerà più ricca e più colta di quella di tanti altri Paesi arabi; più portata alla democrazia. Eh! Se gli ebrei e i palestinesi, con un pizzico di libanesi, si mettessero tutti insieme, darebbero la polvere a tutto il Medio Oriente». Peter Madros è nato a Gerusalemme, al Mandelbaum Gate, nel cuore del cuore del popolo arabo della città santa e dell'intellettualità palestinese. Suo padre era gerusalemitano, la madre di Ramle, la nonna dell'uliveto santo di Ein Karem. «A tredici anni ho capito che sarei stato prete; la Messa, da chierichetto, la dicevo in francese dai salesiani dove aveva studiato mio padre. Tutti i miei famigliari, compresi i miei cinque fratelli, parlavano almeno quattro lingue. L'italiano l'ho perfezionato a Roma, dopo aver imparato il latino. Mio fratello era ufficiale nell'Aeronautica militare giordana. Sposò una ragazza che era la sorella del vescovo cattolico romano della Giordania. Era un uomo carismatico, che mi ha cambiato profondamente. Era la persona più felice che abbia mai visto. Lo presi come modello». Peter Madros ricorda il tempo della dominazione giordana prima del 1967 come un'età felice: «E' vero che noi cristiani eravamo discriminati nella vita civile, nelle cariche pubbliche, nell'esercito, nel governo... ma non ne sentivamo nessun peso, nessun desiderio di uno Stato palestinese viveva dentro di me sino ai tempi dell'Inti/ada. I giordani sono i più diretti congiunti dei palestinesi, le mie sorelle vivono oggi in Giordania. E' pur vero che con gli ebrei ho da sempre vissuto fianco a fianco in Gerusalemme. Ma il muro che mi separava da loro mi pareva naturale. E' ve¬ ro che con i giordani ci sono stati conflitti anche terribili, come Settembre Nero. Eppure quella separazione dagli ebrei, quel muro subito dietro la mia scuola a Gerusalemme, era un muro costruito forse dalla natura stessa. Mentre con i giordani, spero pur sempre in un accordo politico che ci dia un futuro comune». Madros appare sempre più triste mentre esprime una sorta di nostalgia-paura nei confronti dei suoi fratelli musulmani: «Durante Ylntifada a noi preti era proibito parlare con i mascherati, con i clandestini con la kefia sul viso. Essi saltavano ad ogni scontro dentro al mio giardino, inseguiti dai soldati israeliani mettendo a rischio i trecento bambini che studiano nella scuola della parrocchia. E un giorno che li inseguivo mentre, sudati ed eccitati, scorrazzavano nel cortile brandendo le pietre, mentre i lacrimogeni volavano intorno, ho riconosciuto fra i ragazzi uno dei parrocchiani, un ragazzino mascherato: gli ho afferrato la kefia e gliel'ho strappata dal volto. "Che fai tu qui, così conciato? Non sai che i tuoi piccoli fratelli vanno a scuola qua dietro? Li vuoi mettere in pericolo?". Ma lui mi ha scrutato un po' impaurito della sgridata del suo prete, e un po' beffardo. Si è scrollato le mie mani dalla faccia ed è corso di nuovo in mezzo ai suoi compagni». Madros rivendica orgoglioso la partecipazione alla leadership di Arafat di tanti suoi amici cattolici (padre Ibrahim Sus, Afif Safieh e altri ancora), ma da prete paventa il vuoto civile che si crea in una situazione di guerra: «La natura teme il vuoto di istituzioni, di valori e di gerarchie normali, e la malaerba cresce. Quando le scuole sono chiuse per Ylntifada, i ragazzi prendono il sopravvento sui vecchi con la loro vitalità. Il loro rumore, il loro ritmo diventano legge. E' bastato in questi anni mettersi in fazzoletto a quadri sulla faccia per diventare più importante del proprio padre. Questo non è bene. E' ora di tornare a scuola», dice Madros. Intanto giunge Abdel Shafi in visita, la parrocchia si trasforma in una piazza da comizio. Ci vuole pazienza, silenzio, passione di prete. E il nostro prete dà il benvenuto al leader politico dell'Jntifada. Più tardi farà ascoltare a tutti il suo nuovo altoparlante multidirezionale a fungo appena giunto dall'Italia: canta con la voce delle campane gli inni natalizi. Padre Madros ne è veramente fiero. Fiamma Nirenstein . , - dOTlO 140 TfYlUCl gli arabi cristiani che vivono in Israele fra musulmani e ebrei «Arrivai alla parrocchia durante la rivolta antisraeliana. La nostra gente moriva di fame» r,~ SOTTO L'ALBERO Immagini natalizie di Betlemme Qui accanto, un Babbo Natale fra due militari. Più a sinistra un pastore arabo Sotto, la Chiesa della Natività durante un servizio religioso