Cimabue d'oro dopo i restauri
La «Maestà» salvata a Firenze La «Maestà» salvata a Firenze Cimabue d'oro dopo i restauri FIRENZE ITALIANO figurativo comincia da qui». Così ha esordito il soprintendente Paolucci presentando, nella sala degli Uffizi che ormai solo da queste parti chiamano «del Dugento», il restauro della Maestà di Cimabue (nella foto sopra il titolo) già nella chiesa romanica originaria di S. Trinità. E' questo l'ultimo atto della campagna, finanziata dalla Banca Toscana, che ha interessato dal 1988 le altre due Maestà, prima quella Rucellai di Duccio di Boninsegna, poi quella già in Ognissanti di Giotto. Molto si è discusso negli ultimi decenni (ma in realtà voci del dibattito risalgono già all'800) sulle opere d'arte, e soprattutto sui capolavori carichi di storia e di «carisma», decontestualizzati, cioè strappati dai luoghi a cui erano originariamente destinati e per cui quindi erano stati pensati e creati, e in un certo senso imprigionati e trasformati in emblema e feticcio fra le mura dei musei. Ebbene, il momento magico e nello stesso tempo di immersione nel tempo e nella storia offerto dai tre dipinti restaurati nel salone progettato nell'immediato dopoguerra da Michelucci, Scarpa e Gardella, anch'esso ripulito e con un nuovo impianto di illuminazione, è tale da giustificare in questo caso l'originario trasferimento, napoleonico, nella Galleria dell'Accademia, e da lì più tardi agli Uffizi. E' qualche cosa di ben più impressionante di una «lezione» visiva di storia dell'arte. La stessa, straripante dimensione fisica e sacrale delle enormi ta¬ vole della Madonna col Bambino in trono, «in Maestà»; l'identica struttura con la cuspide piramidale; i paralleli, ma diversi, fulgori d'oro (solo la gran tavola di Cimabue, purtroppo, senza la cornice originale): eppure, tre lingue nobilissime, tre mondi sublimi, ma intimamente diversi, tra un passato che affonda le radici millenarie fra Roma e Bisanzio, in cui il cielo assorbe la terra, ed è Cimabue, e un futuro in cui il divino è a misura ed esperienza dell'uomo. Incredibilmente, dopo il restauro, il ritmo più «classico», solenne, scandito, da bassorilievo d'avorio della tarda romanità imperiale, è quello che sublima Cimabue, con le teste degli angeli alternate come un canto gregoriano, con il fondo oro cesellato a riquadri e il trono biondo, fra avorio vecchio e legno dolce, dalle cornici minutamente intagliate. Rispetto al nerbo gotico di Duccio, tanto più evidente nello scorcio di un trono con simile modello e nei sontuosi contrappunti cromatici, rispetto alla pienezza fluente di Giotto, architettonica e corporea, l'icona di Cimabue si accampa fra mondo terreno e divino nella sua centralità assoluta. Essa è immersa grazie al restauro - miracolosamente, considerando i gravi depauperamenti della superficie riscontrati nelle indagini preliminari - in una dolcezza sovrumana di luce bionda: vera visione profetica dell'Incarnazione da parte dei quattro personaggi biblici ai suoi piedi, Geremia, Abramo, David e Isaia. Marco Rosei
Persone citate: Boninsegna, Gardella, Michelucci, Paolucci, Rucellai, Scarpa
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