Sgambetto all'algido Ingres di Marco Vallora

Roma: esposti i lavori preparatori del Rossini dei pennelli Roma: esposti i lavori preparatori del Rossini dei pennelli Sgambetto all'algido Ingres Rivelate tutte le sue inquietudini 7n1 roma L ' EDUCENTE il titolo m stendhaliano della meriI | tevole mostra che Villa ~rJ Medici dedica al misterioso Ingres (sponsorizzata da Enel e da Fondation Electricité de France: amabile paradosso per il pittore meno elettrico della storia dell'arte): «Il ritorno a Roma di Monsieur Ingres». Doveroso omaggio, da parte di Jean-Marie Drot, subito dopo Balthus, a un altro dei gloriosi direttori dell'Accademia di Francia: Ingres vi restò in fervida carica per sette anni. Ma anche quello era un ««ritorno»»: aveva già vissuto in via Gregoriana, semplice pensionnaire. Proviamo a rientrarci con lui, nelle silenti stanze di Villa Medici. C'è da scommetterci: una violenta, subitanea scarica di collera. Se è vero, come ce lo descrive il sorprendente ammiratore Baudelaire, che egli era «talento avaro, crudele, collerico, sofferente, straordinario miscuglio di qualità in contrasto» (e questo doveva probabilmente ammaliare il poeta, che più estraneo a Ingres non poteva risultare). Apparentemente glaciale e statuario, Ingres si colora di fuoco, erutta i suoi fulmini, sotto forma di motti. 0 non aveva scritto a piene lettere: «Bisogna far sparire le tracce della facilità. Sono i risultati, non i mezzi impiegati, che debbono scomparire»? E ancora: «Ciò che si chiama "tocco" altro non è che la qualità dei falsi talenti, dei falsi artisti... Invece dell'oggetto raffigurato, esso mostra il procedimento; invece del pensiero, rivela la mano». E qui non c'è altro: tentativi nervosi, segreti della «mano» che saggia il cammino concettuale, «procedimenti» disarmati e vulnerabili. E' la denudata - a tradimento - e sofferente via Crucis dell'artista moderno, che si vuol fingere classico (magari identificandosi con Raffaello e feticisticamente facendosi prelevare dal sepolcro una sua costola, reliqua laica) nel tentativo titanico di raggiungere una perfezione assoluta, «bianca», depurata di ogni fatica creativa. Dov'è dunque Ingres? grida immaginariamente Ingres, ferito da questo importuno svelamento degli altarini. Non che Georges Vigne, curatore della mostra e conservatore del Museo di Montauban, che trattiene oltre 4500 di questi fogli, finga di non saperlo. Nel ponderoso catalogo Palombi, ci racconta del disprezzo dell'artista per questi vili lavori preparatori (meglio, «diffidenza, per paura che i suoi dipinti non suscitassero più alcun inte resse»), il suo scrupolo ingenua mente non-definitivo nel gettar via ma soprattutto nel non mostrare questi schizzi di «avvici namento» alla perfezione (non volendo «far conoscere a tutti un materiale che avrebbe potu to svelare i suoi misteri»). Per carità, siamo tra i primi a essere riconoscenti a Max Brod di non aver seguito le volontà di Kafka, e convinti che sorprendere il laboratorio di un genio in opera sia comunque necessario e meritorio. Ma poiché Vigne stesso scrive: «Dobbiamo riconoscere che questi studi, per quanto importanti, appaiono spesso ingrati, troppo microscopicamente precisi e di una complessità spesso dissuasiva per il semplice ammiratore», che cosa dobbiamo concludere noi, magari mettendoci dalla parte di un ammiratore meno preparato? Che questo non è Ingres, non è tutto Ingres: è un'appendice parziale e fuorvi ante. Chi non ricorda il suo Bagno Turco, o la Grande Odalisca, o il ritratto di Monsieur Bertin, che idea di Ingres potrà trarre da questa mostra? Rassegna che - pur utile per specialisti e conoscitori, con tutti i problemi di ridatazione e risistemazione iconologica che rimette in gioco - non rende un servizio completo e obiettivo a questo Rossini della pittura, che come il musicista assediato dalla modernità romantica, invece di chiudersi in un silenzio risentito e malato, con lunare intempestività, in sprezzo alla Storia (lavora a pochi metri d'anni da Manet e Coubert, che deride) sceglie di modulare retoricamente, per le sue figure, un belcantismo algido ed incantatorio, che stregherà anche Renoir e Picasso, Degas e Manet, che hanno patito il loro periodo «ingriste». Ma certo non per «questo» Ingres: inquieto, insoddisfatto, nervoso, quale trapela da simili schizzi, che tradiscono il suo fare troppo umano. Illuminante, ma non esaustivo. Sarebbe come mostrare del suo idolatrato «mio divino Mozart» (Ingres aveva esitato a lungo se diventare musicista piuttosto che pittore, suonava il violino, e bene, se poteva esibirsi in quartetto con Paganini) soltanto un autografo ciancicato, ferito di correzioni, tormentato di dubbi, per sostenere il suo pre-romanticismo. Se è vero che di fronte ai capolavori dipinti di Ingres «sembra di essere arrivati un attimo troppo tardi perché potessimo cogliere ancora gli ultimi battiti del suo cuore, l'ultimo respiro di un personaggio», come ha scritto Picon, ed è indubbiamente il suo fascino minerale, che senso ha volergli fare un subdolo sgambetto, sorprendere solo il suo gesto impacciato, arrivare un attimo prima, come suggerisce Drot, «alle spalle dell'artista, mentre coglie la realtà, la trasforma»? Ingres è pittore di splendida morte, di ghiaccio focoso, come rivelano formidabili disegni compiuti, qui assenti (salvo i bellissimi «ritratti» di Villa Medici): benissimo rivelare un suo aspetto segreto, irrequieto, «romantico». Ma non solo quello: altrimenti c'è il rischio di farlo troppo assomigliare all'odiato Delacroix. Venne un giorno, in incognito, a vedere un capolavoro del rivale. Rientrato, Ingres fece spalancare le finestre: «Dio, che puzza di eretico!», sibilò. Qui, sembra aver ritrovato un fratello. Marco Vallora «La conversazione galante» di Ingres, studio per « L'àge d'or» in mostra a Villa Medici, fra i lavori preparatori del pittore

Luoghi citati: Enel, Francia, Roma